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LA STORIA

OPERAISMO E MATERIALISMO STORICO

Un fatto è chiaro. Di fronte ai successi del capitale la teoria rivoluzionaria ha smarrito se stessa. Se per teoria si intende un discorso sulla trasformazione della società, essa è ridotta ormai a ben poco. O si limita a lanciare anatemi di sapore moralistico, oppure non fa che scrutare le zone d’ombra del capitale alla ricerca dei suoi punti deboli, ma ciò che viene mostrato trionfalmente – problemi come la sottoccupazione di massa, il degrado ambientale, le ondate migratorie, la microconflittualità endemica – in realtà così ovviamente criticabile che il capitale già lo critica da sé. Talvolta, - ciò che è già più interessante, - la teoria ancora arriva a considerare le classiche, più o meno oggettive, contraddizioni del capitale, discorso che però la storia ha dimostrato inconsistente, risultando chiaro che il capitale è perfettamente in grado di soddisfare le rivendicazioni economiche avanzate dal proletariato e come ogni crisi sia in realtà una pausa nel corso di una crescita quasi ininterrotta.
Appare evidente che nelle correnti analisi sul capitale le categorie critiche, cioè le tradizionali vie di attacco teorico alla società attuale, sono assolutamente inadeguate alla portata assunta dalla questione. La questione non è più, se mai lo è stato, di mostrare la fine necessaria del capitale nelle leggi dell’economia. E’ lo stesso sviluppo del capitale a far sì che la vera sfida da affrontare sia se esso rappresenti la forma adeguata di soddisfacimento degli attuali bisogni storici della società, o piuttosto una forma sociale transitoria. Infatti, quando gli apologeti del capitale annunciano la fine della storia, pongono tale questito in forma mistificata, considerando la specie umana e i suoi bisogni come dati a priori, come fatti naturali posti una volta per tutte. Ciò permette al capitale di porre all’umanità proprio tale quesito, ma già nei termini stessi in cui lo pone, uniti alla forza persuasiva di una positività apparentemente indiscutibile, il capitale risolve perentoriamente la questione a proprio favore. Certamente il capitalismo, fin dai tempi dell’Illuminismo, l’epoca in cui il capitale era sovversivo e celebrava i suoi massimi fasti teoretici, esso ha sempre posto se stesso come culmine e compimento della storia, però mai con tale tracotanza e mai la teoria rivoluzionaria si è trovata così disarmata di fronte a tale pretesa. Ma questo, a ben vedere, è sempre stato il compito della teoria, cui ha sempre assolto prima ponendo la domanda in termini corretti, ciò che è già in sè una parte cospicua della risposta, in quanto significa creare le categorie adeguate a tale scopo. Dopo di che la risposta è quasi una questione di dettaglio.

1. PROLETARIATO E TEORIA

“Ad ogni istante l’esperienza del proletario si forma a partire dalla realtà presente e non dalle ‘lezioni del passato’; ma questa realtà presente contiene i risultati dell’azione passata, in quanto risultati della fase precedente della lotta di classe.”
P. Cardan

L’ultima presa di posizione della teoria adeguata alla portata di tale questione risale ormai al secondo dopoguerra. Si tratta della corrente teorica nota come operaismo, attiva tra quell’epoca e gli anni 70 (1). Alla base di tale teoria sta l’idea che al movimento dell’economia, dominio della borghesia ma al tempo stesso realtà apparentemente autonoma che pare sovrastare i suoi proprietari, si opponga una speculare autonomia della classe dei produttori. La storia è vista sostanzialmente come una interazione tra lo sviluppo oggettivo dell’economia e la resistenza soggettiva dei produttori al suo dominio, che ne condiziona lo sviluppo. Decisiva nel determinare il corso storico è pertanto l’azione dei produttori, cioè la lotta di classe, quindi la coscienza come coscienza di classe (2).
Tale concezione della dinamica sociale deriva dal modo in cui nel capitalismo si configura il rapporto tra tecnologia, cioè meccanizzazione e organizzazione della produzione, e lavoro. Se lo sviluppo della tecnologia è finalizzato ad accrescere la produttività del lavoro, sotto il capitale tale incremento appare essenzialmente come pluslavoro appropriato dai detentori dei mezzi di produzione, cioè come profitto, non (direttamente) come qualcosa che torni a vantaggio dei produttori, pertanto non come mezzo per accrescere i consumi e ridurre ed umanizzare il lavoro, se non come risultato della lotta di classe. Quindi esiste un conflitto tra capitale e lavoro riguardo la ripartizione del prodotto sociale ciò che in ultima analisi pone la questione della proprietà dei mezzi di produzione, fondamento del diritto di proprietà del capitale sul prodotto (3). Ma al tempo stesso la tecnologia rappresenta la realizzazione delle forze sociali del lavoro, e il suo sviluppo determina una socializzazione crescente della produzione. Ciò determina una contraddizione sociale insanabile, quella tra una produzione socializzata ed una appropriazione privata del prodotto. Per cui ogni sviluppo delle forze produttive suscita nel proletariato una resistenza all’alienazione dell’individuo, non solo del prodotto ma anche della personalità, che è alla radice della lotta di classe.
Questa resistenza pone al capitale quello che per esso è il problema fondamentale, cioè istituire con la forza lavoro un rapporto che permetta di superare tale resistenza. Questo è necessariamente un rapporto coercitivo, ma non fondato sulla forza, in quanto dannosa per l’economia. Esso è determinato come conseguenza del monopolio dei mezzi di produzione che la borghesia riserva a se stessa, in quanto mezzi di sussistenza del lavoro, senza i quali non può esistere, condizione che si riproduce con l’espropriazione del prodotto. Ma questa coercizione diviene effettiva solo se si esercita un controllo sul lavoro, cioè una tecnologia diviene realmente produttiva solo se il capitalista realizza il possesso del processo produttivo come controllo pratico, cioè come “comando” sulla forza lavoro. Quindi sotto il dominio del capitale lo sviluppo delle forze produttive, cioè della tecnologia, deve avere come fine primario quello di rendere operante la coercizione mediante il controllo, cioè attraverso l’esercizio della sorveglianza e la quantificazione del lavoro erogato (4).
Questo uso della tecnologia a fini coercitivi viene attuato in vari modi, in generale come adeguamento del lavoro vivo al movimento della macchina, definito dal comando capitalista. Ma la coercizione si verifica già solo per il fatto che ogni innovazione tecnologica comporta (per la grande maggioranza dei lavoratori) una riduzione quantitativa e qualitativa della forza lavoro. Ciò accade già con la divisione del lavoro manifatturiero, dove il lavoro dell’artigiano è suddiviso in operazioni parziali e quindi il suo lavoro sostituito con un lavoro meno qualificato. Poi con il macchinismo si ha la sostituzione di lavoro vivo qualificato non solo con lavoro dequalificato, rendendolo sostituibile, ma anche con lavoro morto, accrescendo l’esercito di riserva, diminuendone così complessivamente la resistenza allo sfruttamento. Infatti la tecnologia permette la meccanizzazione della parte automatica e ripetitiva del lavoro, non solo di quello manuale, come avviene fin dalla prima rivoluzione industriale, tendenza che si è ora perfezionata con la robotica, ma anche di quello intellettuale formalizzabile, cioè registrazione ed elaborazione dati mediante calcolatori (5). Pertanto la produttività di una tecnologia e il suo carattere coercitivo sono inseparabili, cioè la produttività e il controllo attraverso il quale si attua la coercizione si affermano uno per mezzo dell’altro. L’atto costitutivo della lotta di classe è quella resistenza messa in atto dal lavoro che vanificando il controllo permette al lavoro di sfuggire alla coercizione. Ma se la coercizione è la caratteristica fondamentale del rapporto di produzione in quanto rapporto di dominio, la lotta di classe, rendendo inefficace la coercizione nega il rapporto stesso, mette in crisi il comando capitalista, che deve essere ripristinato. Ciò viene effettuato non tanto con l’uso della forza, sempre antieconomico ed efficace solo temporaneamente, ma sviluppando una tecnologia che renda più stretta la subordinazione della forza lavoro al processo produttivo, mutando così il rapporto di produzione materiale.
Quindi la tecnologia non solo determina i mezzi di produzione, cioè il grado di meccanizzazione del processo, ma attraverso questi anche il rapporto di produzione in quanto realizzazione concreta nella produzione del dominio di una classe sull’altra. Infatti sotto il capitalismo il rapporto di produzione si realizza attraverso i mezzi di produzione, presentandosi immediatamente come tecnica di organizzazione del lavoro e di gestione dei rapporti di produzione e sociali. Ciò comporta che esista una relazione molto stretta tra forze produttive e rapporto di produzione e che un mutamento delle une comporti necessariamente quello dell’altro.
Ma non solo. Secondo Marx i rapporti di produzione costituiscono “la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale.” Quindi il grande apporto teorico di Marx è l’aver dimostrato che “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.” Per l’operaismo invece, poichè all’origine dello sviluppo delle forze produttive, quindi del rapporto di produzione, vi è la lotta di classe, non solo lo sviluppo delle forze produttive determina la coscienza, ma a sua volta la coscienza degli sfruttati, attraverso la mediazione delle lotte di classe, promuove lo sviluppo delle forze produttive. Questa azione reciproca distingue l’operaismo dal marxismo classico, ma non si tratta solo, né tanto, di questo. L’esistenza di questa interazione era già stata notata esplicitamente da Engels, pur mantenendo fermo che le forze produttive “in ultima istanza” sono determinanti. Il punto cruciale sta piuttosto nel fatto che il marxismo considera l’azione cosciente degli sfruttati possibile solo quando “le forze produttive materiali entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti”. Ciò in quanto “le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti”, dato che “gli individui della classe dominante (…) in quanto dominano come classe e determinanno l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che lo fanno in tutta la loro estensione e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti”. Poichè la coscienza è vista come qualcosa di subordinato alla prassi materiale un pensiero indipendente da quello dominante può sorgere solo quando entrano in crisi i fondamenti materiali della società. Infatti, “la divisione del lavoro diviene una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione tra lavoro manuale e lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunchè di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la ‘pura’ teoria. Ma anche quando questa teoria entra in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti”. Ma, poiché “Una formazione sociale non perisce finchè non siano sviluppate tutte le forze produttive cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate le condizioni materiali della loro esistenza.”, la contraddizione tra rapporti di produzione e forze produttive, e quindi una coscienza critica, possono emergere solo con la decadenza e crisi finale di un sistema sociale, e coincide con la sua definitiva scomparsa.
Questo aspetto del materialismo storico ha sempre costituito un limite del marxismo in quanto ha alimentato posizioni attendiste e riformiste. In relazione a ciò l’operaismo ha rappresentato sotto questo aspetto un revisionismo che ha arricchito e radicalizzato il marxismo. Esso infatti afferma che in seno al capitale la contraddizione è permanente e genera un continuo processo di adeguamento del capitale ad una condizione di conflittualità endemica. Cioè, quanto Marx pone al tramonto di un sistema sociale nel capitale in realtà è sempre all’ordine del giorno.
Infine in Marx lo sviluppo delle forze produttive è considerato una forza storica a sè stante, generata da fattori imprevedibili, tutt’al più nel capitale stimolata dalla concorrenza, mentre per l’operaismo è generata dal rapporto capitalistico stesso in quanto rapporto di produzione intrinsecamente conflittuale, in quanto contraddizione che si autoalimenta. Infatti, l’elemento che lo rafforza, cioè lo sviluppo della tecnologia, è anche ciò che costantemente lo spinge verso la sua fine, in quanto determina l’azione sempre più cosciente del proletariato, e questa le condizioni materiali del suo superamento, insieme alla coscienza corrispondente.

In conclusione, ciò che caratterizza le teorie operaiste è un rovesciamento del determinismo economico in soggettivismo classista. Qui non solo il motore della storia è posto nella lotta di classe, ma il proletariato mantiene costantemente l’iniziativa. Si tratta però non tanto di un proletariato generico, ma di quello industriale, la cosiddetta – impropriamente, in quanto si tratta in realtà di una frazione del proletariato - classe operaia, con la sua incessante resistenza all’alienazione del prodotto e alla riduzione a forza lavoro astratta, a componente passiva della macchina, forma in cui si manifesta la contraddizione tra privatizzazione del prodotto e socializzazione della produzione. Il vero luogo dello scontro non è più quello sovrastrutturale, caro ai partiti, delle istituzioni politiche ma la produzione, cioè la fabbrica. Ma nemmeno é quello sindacale il terreno organizzativo decisivo, ma l’organizzazione immediata che gli operai si danno sul luogo di produzione per resistere alla coercizione. Nè il partito rappresenta più il depositario della coscienza ma è lo sfruttamento la vera sorgente della coscienza proletaria. Qui, direttamente in fabbrica, si manifesta la resistenza attiva, prepolitica e presindacale del proletariato, nel rapporto di produzione concreto ed immediato, di cui il capitalismo è solo la sua astrazione come categoria economica, così come il lavoro salariato. “La fabbrica moderna, che si basa sull’applicazione delle macchine, è un rapporto sociale di produzione, una categoria economica.” E’ di qui che nascono le organizzazioni formali, non il contrario, come viene affermato dalla teoria del partito. Così l’operaismo – questo è il suo aspetto più apprezzabile – giunge a superare l’antinomia tra il carattere deterministico del processo sociale e il suo fine storico, il superamento dell’alienazione, evento che presuppone la nascita della coscienza. Ciò risolve anche il problema pratico della possibilità di intervenire soggettivamente negli eventi, in quanto rende l’azione particolare tutt’uno con il movimento storico del proletariato.

Tali contenuti restano tuttora validi, ma anche l’operaismo ha mostrato i suoi limiti proprio nel momento del suo maggior successo, cioè nel corso delle lotte degli anni 70. Infatti l’operaismo se fu la teoria di quelle lotte tuttavia non spiega completamente gli eventi di quella che ha costituito l’ultima grande crisi attraversata dal capitalismo. Non c’è da meravigliarsi, poiché ogni teoria è figlia della sua epoca, quindi destinata a mutare nel tempo. Infatti l’operaismo, pur rimanendo fondamentalmente marxismo, è un superamento del marxismo classico, che viene sviluppato ed integrato in alcuni punti per render conto degli avvenimenti posteriori alla sua nascita, essenzialmente il processo di decolonizzazione. Infatti il suo intento è quello di rilanciare la lotta nelle aree a capitale sviluppato di fronte all’esplosione delle rivoluzioni nei paesi sottosviluppati, comprendendo fra di essi la stessa Russia, e alla stasi delle lotte nel capitalismo avanzato (6). Ma anche l’operaismo, confrontandosi con fatti ad esso posteriori, si è rivelato in parte inadeguato a renderne conto, quindi deve essere superato da una teoria che sia in grado di comprenderli. Se questo è lo scopo è necessario riprendere il discorso dal punto in cui è stato interrotto, dalla cesura degli anni 70. Qui si può constatare che, come è avvenuto per l’operaismo in rapporto al marxismo, quanto è accaduto negli anni 70 e ciò che ne è seguito può essere interpretato materialisticamente nell’ambito dell’operaismo classico ma a condizione di generalizzarne le categorie, introducendone dove necessario delle nuove non in contraddizione con le precedenti. Si tratta, come ormai è già percezione diffusa, di riconsiderare le teorie operaiste ampliandone la portata dai luoghi della produzione a tutta la società, cioè prendendo in esame la sfera della circolazione. Naturalmente non si tratterà più di operaismo (già lo stesso termine, com’è chiaro, sarebbe improprio), ma occorrerà conservarne lo spirito, come questo ha conservato quello del marxismo.

(1) Sebbene i suoi precursori possano essere rintracciati nel consiliarismo e nell’austromarxismo del periodo tra le due guerre, fino alla stessa Rosa Luxemburg, cioè nelle correnti marxiste antileniniste.
(2) Questa autonomia non è insita nel produttore in quanto propria della natura umana, ma in quanto è un prodotto storico.
(3) Ma il problema si pone anche rispetto l’utilizzazione della tecnologia in quanto tale, quindi in rapporto alle conseguenze negative dell’uso della tecnologia: inquinamento, incidenti sul lavoro, disagi relativi alla realizzazione di opere pubbliche, uso del territorio.
(4) Ma anche come uso effettivo o potenziale della forza e come manipolazione della coscienza, cioè come creazione del consenso attraverso l’ideologia.
(5) Ma oltre a questa conseguenza, che riguarda il lavoro meno qualificato, si manifesta un altro processo in controtendenza, cioè si determina un aumento relativo della forza lavoro intellettuale qualificata, quella necessaria allo sviluppo delle tecnologie di base. Questa forza lavoro è intrinsecamente non controllabile perché si pone al di là della divisione del lavoro, in quanto tali servizi sono lavoro scientifico e relazionale. Quindi lo sviluppo delle forze produttive comporta uno sviluppo quantitativo e qualitativo del proletariato.
(6) In realtà, poichè l’operaismo è essenzialmente una critica del capitale a partire dal rapporto di produzione concreto, Marx è l’antesignano dell’operaismo, in quanto definisce il capitalismo un rapporto sociale. “E’ Marx, come è noto, che per primo si è sforzato di analizzare la sfera centrale dei rapporti sociali ovvero i rapporti di produzione concreti esistenti all’interno della fabbrica capitalista.” (S.ou B., p.70). Tale critica individua due caratteri che qualificano tale rapporto, il macchinismo e la divisione del lavoro. Già Marx sottolinea la duplice natura di essi in relazione alla duplice natura del processo di produzione capitalistico: processo di lavoro che produce valori d’uso; processo di valorizzazione che produce valori di scambio, dove il primo è mezzo del secondo. L’operaismo moderno sviluppa l’analisi sul carattere coercitivo di tali elementi, l’uso delle macchine per disciplinare il lavoro già nel processo concreto di produzione, ora assai più consapevole dopo il taylorismo e l’enorme sviluppo della lavorazione a catena; l’analogo sviluppo, per il medesimo scopo, della divisione del lavoro in compiti direttivi ed esecutivi nettamente separati, nonché delle contraddizioni che ne stanno alla base e ne derivano.

2. LA COSCIENZA

Principio generale della conoscenza è che quando ci si trova di fronte a fatti nuovi che non trovano collocazione nella teoria, allora occorrerà modificare (non abbandonare!) il quadro teorico (1). Lo stesso deve accadere per quella che è la teoria sociale per eccellenza, cioè il materialismo storico in quanto teoria del movimento storico, la base su cui si eleva tutto il marxismo. Questa teoria era già stata mutata implicitamente dall’operaismo, ma il discorso non venne mai affrontato esplicitamente, se non per aspetti particolari. Se si prosegue su questa strada diviene inevitabile affrontare il problema. Cioè, il materialismo storico di Marx è adeguato alla comprensione della storia recente?
Considerando tale questione è proprio l’analisi della crisi degli anni 70 ciò che rende necessario un riesame di questa cornice teorica. Infatti, si può affermare che l’attuale momento storico e sociale è il portato di un nuovo livello di sviluppo del proletariato, sia del suo essere materiale che della sua coscienza, le cui prime manifestazioni sono apparse nei movimenti degli anni 70. Tali movimenti sociali traevano la loro origine dal livello di coscienza (C1,2), quindi dai nuovi bisogni e dai nuovi saperi, espressi da tale proletariato, che richiedevano di essere oggettivati, cioè soddisfatti. Caratteri questi a loro volta prodotto degli equilibri dinamici relativi al rapporto di produzione (R1) raggiunti tra le classi nel periodo precedente, rapporto caratterizzato da un conflitto istituzionalizzato tra l’autoritarismo padronale che connotava il grande capitale monopolistico e le grandi organizzazioni dei lavoratori che erano sorte per contrastarlo. Equilibri questi determinati dalla precendente introduzione di nuove forze produttive (T1), cioè tecnologie innovative che necessitavano di nuovi rapporti la cui realizzazione era stata assicurata attraverso la creazione di una forza lavoro adeguata, mediante l’istruzione e il consumo di massa, rese possibili da T1, e la istituzionalizzazione delle rappresentanze politiche del lavoro. Tali forze produttive (industria chimica ed elettrica, meccanica di precisione) sono tutte riconducibili ad una innovazione fondamentale, la scienza applicata, che aveva prodotto una ristrutturazione del rapporto di produzione capitalistico nella forma dell’organizzazione taylorista del lavoro e nella sua gestione in fabbrica (manegement, psicologia industriale) e fuori di essa (comunicazione di massa). Trasformazioni queste che successivamente avevano determinato profondi mutamenti nei rapporti sociali a livello sovrastrutturale: nelle istituzioni la nascita dello stato sociale, nella società il consumismo e le teorie keynesiane in economia. Tutto ciò costituisce il quadro della seconda rivoluzione industriale, evento che incide profondamente sulla coscienza dell’epoca.
Quello che segnò la fine di tali equilibri fu il fatto che il rapporto di produzione taylorista rappresentava un ostacolo, che si manifestava come lotta di classe, allo sviluppo di nuove forze produttive, ostacolo che ad un certo punto era divenuto insormontabile. Tali forze apparivano nella produzione come innovazione tecnologica, conseguenza dello sviluppo da parte del proletariato di nuove conoscenze, sia soprattutto in quella di nuovi bisogni sociali nel proletariato nella sfera del consumo, entrambi manifestazioni di un superiore livello di coscienza del proletariato. Coscienza questa che rivelava la nascita di una nuova figura di proletarioto, il proletariato dei servizi, la cui oggettivazione reclamava un nuovo rapporto sociale, non solo al fine di abolire lo sfruttamento ma soprattutto in vista della realizzazione di una essenza degli individui ricca e differenziata, dando inizio ad un’epoca di trasformazione storica di cui ancora non si scorge la fine.
Occorre tener presente che nel capitalismo la classe produttrice, il proletariato, ha creato un nuovo settore dell’economia quello dei servizi avanzati, così come la borghesia aveva creato l’industria moderna, realizzazione delle forze produttive che avevano costituito la base della sua ascesa. I servizi sono analogamente la nuova forza produttiva che si pone autonomamente rispetto alla vecchia opposizione borghesia-proletariato industriale, e il proletariato dei servizi ne fa il proprio campo d’azione nella prospettiva di un superamento del capitalismo. Per cui accanto alla negazione del rapporto di produzione salariato, vi è parallelamente la creazione di un nuovo settore produttivo, che il nuovo proletariato sviluppa e del quale è realmente il padrone, quello dei servizi moderni. Questa è l’autentico salto qualitativo che le lotte degli anni 70 hanno posto storicamente. (2)
Quindi negli anni 70 le classi e le loro frazioni interne si sono trovate di fronte ad una crisi profonda che ciascuna ha affrontato secondo proprie modalità. Il proletariato tentando di imporre i suoi nuovi caratteri come strumento di egemonia al fine di attuare una trasformazione rivoluzionaria. Il capitale mirando a trasformare in proprie forze produttive ed assorbire come strumenti di profitto tali nuovi caratteri del proletariato, cioè permettendo loro di esprimersi però ma al contempo impedendo che con questo pervenissero a forme di autonomia, quindi tentando di inglobare nel rapporto capitalistico le nuove forze produttive sociali espresse dal proletariato per assumerne il controllo, forze per la prima volta generate integralmente dal capitale stesso e frutto del precedente livello di integrazione. A questo fine il capitale dapprima accoglie la critica ai suoi settori arretrati che il movimento esprime: da una parte quella che ha per bersaglio la formazione, la sanità e in generale tutto il compartimento dei servizi al consumo, soprattutto quelli che costituiscono lo stato sociale, dall’altra la critica che investe la produzione materiale: essenzialmente la parcellizzazione del lavoro, che aveva nella catena di montaggio la sua realizzazione più completa. A tale presa d’atto segue la ristrutturazione, che ha luogo sia attraverso opportune innovazioni tecnologiche (T2), soprattutto nel campo dell’informatica, ma anche con profonde trasformazioni dei trasporti, che mentre disciplinano la forza lavoro (3) istituiscono un nuovo rapporto di produzione (R2). Questo ha carattere non autoritario essendo basato su forme di valutazione oggettive del lavoro, soprattutto quello intellettuale, e un nuovo modo di organizzazione della produzione, cioè la produzione flessibile come superamento della catena di montaggio rigida. Le tecnologie che permettono tali trasformazioni, in precedenza bloccate dal vecchio rapporto di produzione, sono ora invece incentivate dal nuovo rapporto, e a loro volta ne favoriscono l’istituzione, dando così inizio alla terza rivoluzione industriale. In questo processo le forze sociali, bisogni e conoscenze, espresse dal proletariato, originariamente orientate verso un superamento del capitale, sono state così oggettivate come forze produttive del capitale stesso, quindi come forze rivolte contro il proletariato per ripristinare il comando capitalistico. Tuttavia le forze produttive emerse nel corso della crisi degli anni 70 non sono altro che gli effetti sulla coscienza sociale della seconda rivoluzione industriale, che in quanto coscienza arriva in ritardo sul mutamento della base materiale, ma ora, in quanto prodotto del capitale, è divenuta anch’essa una forza produttiva.

Se tali sono i caratteri della grande crisi si tratta di comprenderla secondo le categorie che le sono proprie. Ciò significa eliminare dall’operaismo classico le forzature idealistiche che lo ponevano in contrasto col marxismo, riconducendone, dove possibile, le scoperte teoriche ai principi del materialismo storico. Quando ciò appaia irrealizzabile occorrerà almeno interpretare le categorie del marxismo stesso secondo una accezione più ampia, oppure se necessario lasciarle cadere, soprattutto quando si tratti di superare una visione rigidamente materialista, cioè determinista in senso meccanicistico, valorizzando invece il ruolo svolto dal fattore coscienza. Cioè si tratta di considerare il materialismo non come monismo produttivistico ma come una duplice interazione: da una parte quella tra forze produttive e rapporto di produzione, dall’altra quella tra la seconda in quanto struttura e la sovrastruttura considerata come il luogo della coscienza. Per comprendere tale doppia dialettica occorre comprenderne esattamente i termini, nonché la contraddizione fondamentale che essa mette in movimento.
Quando si parla di forze produttive si intende sia quella della natura che la forza produttiva del lavoro sociale (in breve forza sociale) in tutta la sua estensione, che include sia l’attività materiale ed intellettuale degli individui, cioè le forze produttive soggettive, che i loro prodotti in quanto mezzi di produzione, cioè materie prime (che includono i mezzi di sussistenza) e macchine (che comprendono anche l’organizzazione del lavoro), materializzazione rispettivamente della forza produttiva naturale e di quella umana, che nel loro insieme costituiscono le forze produttive oggettive.
Riguardo al rapporto sociale di produzione, di cui le categorie economiche sono l’espressione teorica, occorre distinguere tra rapporto reale o materiale, che si realizza del processo produttivo come divisione del lavoro, e quello formale, che si colloca nella sovrastruttura giuridica come diritto di proprietà e contrattuale, che ha carattere ideologico. Il primo è identico alla organizzazione del lavoro, il secondo nel capitalismo è essenzialmente alienazione del lavoro (formalmente) libero, e quindi del suo prodotto, attraverso la sua separazione dai mezzi di produzione e lo scambio (coercitivo) con essi in quanto mezzi di sussistenza, cioè sussunzione del lavoro al capitale allo scopo di valorizzare tali mezzi in quanto capitale. In relazione a tale distinzione, è vero che “finchè non si siano sviluppate tutte le forze produttive cui può dare corso” il rapporto di produzione rimane necessariamente lo stesso nei suoi caratteri fondamentali. Ma questo vale per il rapporto formale, poichè in questa identità di principio la sua realizzazione pratica nel processo produttivo, cioè in quanto rapporto reale, varia nel tempo e secondo i luoghi (4), e dipende essenzialmente dallo sviluppo delle forze produttive, avendo tale sviluppo lo scopo primario di realizzare la sussunzione del lavoro al capitale, condizione essenziale per il capitale della sua esistenza in quanto rapporto sociale, cioè come rapporto di produzione. In realtà l’intero processo verifica il fatto che “fino ad oggi le forze produttive si sono sviluppate nell’antagonismo delle classi”, quindi che è la lotta di classe la principale forza produttiva.
Naturalmente l’alienazione o sfruttamento non è solo alienazione del prodotto del lavoro al lavoratore ma anche della sua qualità di individuo completo per ridurlo a individuo parziale, quindi a oggetto in quanto strumento di fini che non solo gli sono estranei ma a lui ostili (5).
Per quanto riguarda la coscienza questa è da intendere fondamentalmente come coscienza materiale. Infatti, poiché “il proletariato, con la sua azione rivoluzionaria o con la sua attività quotidiana, ha trasformato la società, quindi anche i termini del problema. Ad ogni istante l’esperienza del proletariato si forma a partire dalla realtà presente [che] contiene i risultati dell’azione passata” (S.ouB. p.214), non si tratta di una coscienza soggettiva, come accumulo di esperienza storica e frutto di indottrinamento, ma di una coscienza oggettiva, materializzata nella condizione proletaria, sviluppata nell’esperire la realtà presente. Quindi la coscienza non è qualcosa di separato dalla realtà vissuta, che si possa accumulare ed elaborare astrattamente a livello psicologico o sociologico, ma è quella che sorge nell’individuo e nelle collettività come esperienza immediata concreta, inseparabile dal vissuto in un determinato contesto sociale. Trattandosi di coscienza pratica sorge originariamente nel rapporto di produzione concreto, sperimentato nel quotidiano, e da esso si espande agli altri piani del vissuto, fuori della produzione, nei rapporti derivati, sovrastrutturali. Pertanto occorre considerare la coscienza come qualcosa che comprende non solo quella in senso stretto, cioè come ”visione del mondo”, ma anche la conoscenza in quanto tecnica e infine le pulsioni, cioè i bisogni in quanto prodotto sociale. Infatti la coscienza non solo ha origine nelle strutture materiali della società, ma partecipa delle forze produttive in quanto essa include le forze produttive soggettive. Quindi la coscienza, pur manifestandosi nella sovrastruttura, è essa stessa una forza produttiva.
Considerando il principio secondo il quale la lotta di classe è il motore dello sviluppo capitalistico, principio basilare dell’operaismo, occorre individuare quale è la causa della lotta di classe e come si ricollega a quella che nel marxismo è la causa del tramonto di un modo di produzione. Preliminarmente notiamo che nell’operaismo lotta di classe ed estinzione di un sistema sociale si identificano, mentre in Marx questi eventi sono in una certa misura indipendenti. Infatti, mentre per il marxismo la lotta di classe esiste sempre ed ha come causa lo sfruttamento (o più in generale l’alienazione), la contraddizione marxiana, quella tra rapporto di produzione e forze produttive, che produce la fine di un modo di produzione, sorge solo nella crisi finale. Solo allora la lotta di classe, divenuta cosciente, può abolire il rapporto di produzione esistente. Nell’operaismo invece le contraddizioni fondamentali sono da una parte quella per cui il macchinismo pur accrescendo la produttività del lavoro accresce il suo asservimento, dall’altra quella tra lavoro esecutivo e direttivo, da cui l’impossibilità per il primo di essere completamente tale, perché altrimenti il capitalismo non potrebbe esistere. Tali contraddizioni sono permanenti e mettono continuamente in questione il rapporto di produzione, obbligando il capitale a mutarlo, mutando così i caratteri delle classi, fino alla sua soppressione.
Ma l’incompatibilità tra la due teorie è solo apparente. In realtà tutti questi fattori sono aspetti particolari dell’evoluzione storica di una contraddizione più generale, che già Marx aveva individuato, che si può denominare contraddizione fondamentale del capitalismo, quella tra socializzazione della produzione e appropriazione privata del prodotto fondata sulla proprietà dei mezzi di produzione (6). Ogni forma assunta dal rapporto di produzione costituisce innanzitutto un tentativo di eliminare tale contraddizione, tentativo che si risolve solo in una sua eclissi temporanea per poi riapparire in forme nuove quando il rapporto entra in crisi. Tale contraddizione può infatti essere eliminata solo rendendo coerenti modo di produzione e modo di appropriazione, quindi o privatizzando la produzione, oppure socializzando il prodotto. Poiché la seconda alternativa significa l’abolizione del profitto, il capitale opterà per la prima, ma non può essere conseguente perché ciò comporterebbe rinunciare alla più grande delle forze produttive, cioè il lavoro sociale (7). Quindi il capitale deve eliminare tale contraddizione e al tempo stesso deve mantenerla, e tenta di farlo secondo la sua specifica modalità, cioè con una falsa privatizzazione della produzione ottenuta attraverso il mercato, ponendo surrettiziamente il lavoro sociale come lavoro salariato, cioè retribuito individualmente, (8) quindi istituendo il rapporto di produzione sulla base dell’individualismo mercantile. Ciò permette al capitale di mantenere nella produzione l’illusione dell’indipendenza del produttore, apparentemente libero ma in realtà sottomesso all’organizzazione del lavoro capitalista. Così l’espropriazione del produttore appare nella forma mistificata del contratto liberamente sottoscritto. Ma ciò ha conseguenze nefaste sulla socializzazione del lavoro, quindi dell’intera società, in quanto viene realizzata in maniera distorta, ciò che è fonte di innumerevoli problemi. La socializzazione infatti ha luogo sulla base dell’isolamento di ogni lavoratore che entra in rapporto con gli altri lavoratori solo attraverso il comando capitalista, realizzando una socializzazione autoritaria e l’appropriazione come furto legalizzato di forza lavoro. Infatti, poichè il processo sociale di lavoro viene privatizzato esteriormente mantenendo però il suo carattere sociale, il lavoro sociale è posto come lavoro privato. Ma ciò determina un processo di lavoro in cui gli individui cooperano in quanto separati perché tali sono sul mercato ma in realtà tali devono restare in quanto lo esige il comando capitalista, determinando la cooperazione come una attività esterna agli individui. (9)
Dalla soluzione contradditoria del capitale, cioè falsa privatizzazione della produzione attraverso l’appropriazione della forza lavoro come lavoro salariato al fine di poter privatizzare il prodotto (10), conseguono nuove contraddizioni, che non sono altro che una nuove forme di quella primitiva. Nella manifattura, organizzata inizialmente sulla divisione del lavoro relativa al mestiere, l’autonomia del lavoro è tale che la direzione esterna risulta superflua e il comando è puramente fondato sulla coercizione. Quindi lo sfruttamento è palese e l’insubordinazione diffusa, per cui la contraddizione si manifesta nella forma più immediata, come espropriazione di forza lavoro nella forma di prodotto da parte dei proprietari dei mezzi di produzione, che così assumono nei confronti del lavoro una posizione puramente parassitaria. Qui si trova nella sua immediatezza ma anche nella sua forma più elementare il motore della lotta di classe, lo sfruttamento, di per sè insufficiente per il superamento del capitale ma abbastanza potente per creare un proletariato rivoluzionario disponibile a lotte estremamente dure. Ma la ribellione così suscitata fa sì che il capitale passi rapidamente alla frantumazione dei mestieri in attività parziali, più facilmente controllabili e che necessitano di coordinazione. Ma il modo più efficace di regolare il lavoro esecutivo è quello di subordinarlo alle macchine, per cui lo sviluppo della tecnologia diviene conseguenza della lotta di classe, cioè viene finalizzato innanzitutto al controllo del lavoro esecutivo. Qui la contraddizione fondamentale assume un nuovo aspetto. Poiché nella grande industria il coordinamento ed il controllo, cioè la direzione del processo lavorativo, sono affidati alla macchina, si giunge al paradosso per cui uno strumento che accresce potentemente la produttività del lavoro, è contemporaneamente mezzo di oppressione. Cioè perde il suo carattere di strumento di liberazione dal lavoro per divenire strumento di sfruttamento. Successivamente, poiché il processo produttivo giunge a livelli di complessità sempre maggiore, occorre scomporre ulteriormente il lavoro, per cui subentra il taylorismo, che comporta un parallelo accrescimento del macchinismo. Ciò implica che la coordinazione deve diventare sempre più qualcosa che i lavoratori ricevono dall’esterno, venendo così a costituire una attività separata, il lavoro di direzione, e ciò che resta agli individui si riduce a lavoro puramente esecutivo. Si ha così un mutamento della forma della contraddizione, che diviene quella tra lavoro direttivo ed esecutivo. Ora il capitale può svolgere una funzione attiva nel processo produttivo promuovendo la meccanizzazione e l’organizzazione della produzione. Quindi la contraddizione tra lavoro di direzione e lavoro esecutivo non è altro che un aspetto particolare della contraddizione principale, e l’uso capitalistico della tecnologia, soprattutto il taylorismo in quanto tecnica organizzativa, un aspetto particolare della prima. D’altra parte, la direzione è l’aspetto teorico del processo produttivo, mentre la macchina ne è la realizzazione pratica, quindi entrambi compiono la finalità primaria del processo produttivo, la subordinazione della forza lavoro al capitale in quanto condizione per il suo fine ultimo, il profitto.
Quanto alla contraddizione tra forze produttive e rapporto di produzione, è anch’essa una conseguenza della contraddizione fondamentale, ma occorre storicizzarla. Si può constatare che si manifesta come carattere costante del modo di produzione poichè quando lo sfruttamento viene incrementato dall’introduzione di nuove tecnologie il rapporto entra in crisi a causa del fatto che le nuove tecnologie non possono essere utilizzate adeguatamente nell’ambito del rapporto di produzione esistente, perché per suo mezzo non è possibile controllare insubordinazione dei produttori, accresciuta dall’intensificazione dello sfruttamento. Ma lo sfruttamento e la coscienza di esso come antagonismo di classe sono identiche alla coscienza della contraddizione fondamentale e seguono la sua evoluzione. Infatti la coscienza originariamente è immediatamente quella dello sfruttato, ma poi si amplia come coscienza dell’alienazione della personalità e infine della vita intera dell’individuo.

Ora possiamo delineare la dinamica del materialismo storico secondo una prospettiva moderna. L’esistenza della contraddizione fondamentale e delle sue metamorfosi è ciò che fa del capitalismo un sistema sociale intrinsecamente instabile, che non può mai trovare un punto di equilibrio in quanto lo sviluppo delle forze produttive, essendo finalizzato al dominio, ha come primo obbiettivo il mantenimento della contraddizione e insieme l’eliminazione degli gli effetti negativi, ciò che è possibile solo mediante la sua soppressione.
A grandi linee la dinamica che governa la società capitalista procede nel modo seguente. Un certo livello di sviluppo delle forze produttive (T1) determina necessariamente un certo rapporto di produzione (R1), che a sua volta induce necessariamente nel proletariato lo sviluppo di una coscienza conflittuale (C1,2), cioè critica, e quindi di nuove forze sociali, e viceversa il sorgere di nuove forze produttive, quindi di nuovi bisogni, si manifesta come conflittualità. Infatti il rapporto R1 si determina immediatamente come conflittuale in quanto l’introduzione di una tecnologia intensifica sempre lo sfruttamento, quindi la coscienza della contraddizione fondamentale nelle sue varie forme e la conflittualità. Successivamente, sempre nell’ambito di R1, in seguito all’introduzione di nuove tecnologie, la coscienza C1,2 diviene sempre più conflittuale. Infatti, in quanto si pone come coscienza critica, C1,2 investe non solo la produzione ma si espande nel consumo, cioè nella sovrastruttura, producendo nella riproduzione nuovi bisogni, nella sfera intellettuale nuovi saperi e in generale nuovi rapporti sociali sempre più in contrasto con la struttura esistente. Tale processo prosegue fino a quando il rapporto di produzione diviene un ostacolo insormontabile allo sviluppo delle forze sociali. Dal punto di vista del capitale il problema è percepito come l’impedimento alla valorizzazione delle nuove tecnologie costituito da una coscienza divenuta sempre più conflittuale e critica. Dal punto di vista del proletariato come impedimento posto dal capitale alla piena realizzazione degli individui (11). Quindi nell’ambito di un certo rapporto di produzione lo sviluppo delle forze sociali finisce sempre per sopravanzare il rapporto di produzione, determinando periodicamente la crisi del rapporto stesso, divenuto inadeguato e freno a tale sviluppo, ciò a causa dell’insostenibilità della contraddizione fondamentale. Subentra così una crisi generale della società cui il capitale può porre rimedio solo intervenendo alla sua origine, cioè diviene per il capitale imprescindibile sottomettere la coscienza critica, cioè ripristinare il comando sul lavoro, senza però soffocare tale coscienza, che costituisce insieme sia il principale ostacolo allo sviluppo del capitale e la sua principale forza produttiva. Questo significa che viene posta la questione del potere nella sfera politica e nella produzione quella del controllo del processo produttivo. Il capitale persegue lo scopo operando un processo di ristrutturazione, cioè ripristina il comando nel processo produttivo mediante l’introduzione di quelle tecnologie (T2) che era impossibilitato ad usare a causa della inadeguatezza del rapporto di produzione, che sono quelle stesse che il proletariato aveva sviluppato come proprie forze sociali e che tentava di usare in forma alternativa e conflittuale per fuoruscire dal capitale. Ma accade anche l’inverso, il ripristino del comando è la premessa per l’introduzione di nuove tecnologie. Di fatto si tratta di due movimenti che si rafforzano a vicenda. Il rapporto di produzione in questo modo viene ridisegnato in una nuova forma (R2). Il risultato complessivo è che lo sviluppo della coscienza incentiva lo sviluppo della tecnologia, cioè delle forze produttive, in quanto mezzo per imbrigliare la coscienza, sviluppo che pone un nuovo rapporto di produzione, adeguato sia in quanto strumento di dominio che come cornice di una fase di sviluppo materiale (12).
Quindi non solo lo sviluppo delle forze produttive determina quello della coscienza ma accade anche l’inverso, attraverso la mediazione della lotta di classe, ciò che permette la reiterazione delle crisi. Cioè tale dialettica fa sì che le crisi si alimentino e si susseguano le une alle altre. Questa condizione di crisi permanente che caratterizza il capitale non solo rende evidente e intollerabile l’alienazione del prodotto, ma soprattutto quella degli individui in quanto frena lo sviluppo sociale, cioè ostacola con pretese contradditorie gli individui nella produzione e quindi in generale nel loro vissuto quotidiano. Infatti esistono sempre, anche se in misura variabile, le condizioni perché emerga una coscienza critica come risultato di un pensiero in contraddizione rispetto ai rapporti sociali. Di qui la conflittualità permanente tra proletariato e borghesia, che pone il capitale perennemente nella necessità di circoscrivere il conflitto. Ciò viene effettuato non con la repressione, se non eccezionalmente, ma nell’unico modo veramente efficace. Cioè, dato che “il capitale non crea ma recupera”, sempre fedele al principio per cui è meglio mettere in produzione il ribelle piuttosto che sopprimerlo il capitale recupera continuamente, ponendole al proprio servizio, le nuove forze sociali che egli suscita e che gli si oppongono, facendole proprie, trasformandole in forze produttive attraverso operazioni di ristrutturazione della società, alle quali altrimenti non darebbe mai corso, operazioni in cui la coscienza antagonista non viene annullata ma trasformata in nuova forza produttiva del lavoro sociale. (13) Tali ristrutturazioni investono prima il processo produttivo, poi le istituzioni politiche e giuridiche, infine le produzioni culturali, cioè l’ideologia. Quindi la riconversione ha una valenza sia politica che economica trasformando i nuovi bisogni e il pensiero critico corrispondente in nuove forze produttive. Ma ben presto l’economia ristrutturata genera nuova coscienza e quindi nuova tecnologia e nuovi bisogni, e subentra una nuova crisi. Quindi la resistenza del proletariato alla generalizzazione dell’alienazione del prodotto e del soggetto non è che l’altra faccia dell’accumulazione in quanto sviluppo delle forze produttive.
E’ chiaro che la ristrutturazione può aver luogo solo fino a quando i rapporti di produzione reali (materiali) sono compatibili con quelli formali (sociali). Solo quando tale compatibilità viene meno questi ultimi saltano, quindi il modo di produzione e la società corrispondente crollano. A ciò va ricollegato l’esito degli eventi degli anni 70: l’essere state le rivendicazioni dell’epoca, per quanto radicali, ancora compatibili per il capitalismo. D’altra parte, se è vero che quando la compatibilità viene meno così accade per l’intera sovrastruttura, è vero pure che altrimenti ciò che non distrugge il capitale lo rafforza.
Si tratta dunque di una successione di crisi, che se partono da fattori economici e si risolvono in effetti economici, hanno tuttavia il loro epicentro nel rapporto di produzione, ed in ultima analisi nella coscienza in quanto coscienza del conflitto. Ma i cicli delle crisi partono, e devono partire da fattori economici, perché le produzioni ideologiche e le forme della coscienza “non hanno storia”, e quindi non la producono.

(1) Però questa circostanza può essere considerata una spia della falsità dei fatti stessi, situazione non insolita nella teoria sociale, sempre assediata dalle ideologie.
(2) Naturalmente, anche qui può riprodursi una polarizzazione di classe, tra il nuovo proletariato e gli strati più elevati di esso, la burocrazia dirigenziale.
(3) Soprattutto per il lavoro intellettuale: per l’impiegato il computer è divenuto il posto di lavoro fisso equivalente a quello dell’operaio nella catena di montaggio, del quale Ford poteva dire: “non pago gli operai perché vadano a spasso”.
(4) Non si tratta quindi di un nuovo rapporto, e quindi nemmeno di un nuovo soggetto, ma della dinamica stessa della lotta di classe che continua a svolgersi nell’ambito di un modo di produzione in ogni momento, che lo trasforma costantemente preparando la sua crisi finale e il suo superamento.
(5) “La più grande forza produttiva è il proletariato stesso.” (Marx)
(6) Più che di una contraddizione si tratta della violazione di un principio naturale, per cui il prodotto del lavoro appartiene al produttore. Essa esiste in tutte le società di classe, in quanto è la contraddizione tra divisione del lavoro e rapporto di produzione classista, che sotto il capitale assume una forma particolare.
(7) Significherebbe un ritorno a forme storicamente superate di cooperazione: quella tra produttori indipendenti. Cioè produzione privata e scambio per il consumo, quindi divisione del lavoro artigianale e mercato. Oppure abolizione della cooperazione, quindi della divisione del lavoro, con un ritorno alla produzione per l’autoconsumo, cioè l’autarchia.
(8) Ciò cui il proletariato si oppone coalizzandosi nei sindacati e imponendo la contrattazione collettiva.
(9) Di fronte alle mistificazioni del capitale il proletariato può eliminare tale contraddizione solo cogliendola alla radice, cioè dissolvendo l’apparenza individuale del lavoro, e deve farlo eliminando il mercato, cioè la sfera della circolazione in quanto radice della mistificazione in atto nella produzione. Qui si manifesta radicalmente inconciliabilità degli interessi di borghesia e proletariato.
(10) Ed anche per potersi appropriare del lavoro sociale senza pagarlo: “La forza produttiva sociale del lavoro non costa nulla al capitale […] essa si presenta come forza produttiva posseduta dal capitale per natura, come sua forza produttiva immanente.” (Il Capitale, I, IV,11, p.375).
(11) La scienza è stata l’arma che ha permesso alla borghesia di scalzare il dominio dell’aristocrazia, ma con lo sviluppo della società borghese questa forza produttiva viene soffocata. Infatti, con lo sviluppo dell’industria la produzione di scienza e la sua gestione come tecnica passano al proletariato moderno. Perciò l’asservimento dei produttori di tale forza produttiva è un freno al suo sviluppo, sia oggettivo perché lo sviluppo della tecnica è selettivo, in quanto finalizzato al dominio, ma è soprattutto un freno soggettivo perché si tratta di un prodotto collettivo, che necessita di relazioni sociali libere ed universali.
(12) ponendo:
T1 : tecnologia iniziale,
T2 : tecnologia sviluppata,
R1 : rapporto di produzione primitivo, determinato da T1,
R2 : rapporto di produzione risultante, determinato da T2,
C1,2: coscienza, determinata dalla crisi di R1,
l’intero ciclo può essere così rappresentato:
T1-R1-C1,2-T2-R2
(13) Il proletariato si pone inizialmente in posizione ambigua rispetto alle nuove forze produttive. Da una parte resiste al loro sviluppo in quanto strumento di sfruttamento, dall’altra le vuole utilizzare come strumento della propria emancipazione, cioè di fuoruscita dal capitale. Questo atteggiamente ambivalente fa sì che il proletariato abbia rispetto alla tecnologia un ruolo sia conservatore che progressivo e che appaia rivoluzionario quando è in realtà conservatore e riformista quando è progressivo. Se il paradigma marxiano è vero allora per superare tale dualismo è necessario che il proletariato crei un nuovo settore produttivo accanto all’industria. Questo potrebbe essere quello dei servizi, cioè dell’informazione e del consumo.

Torino, 2008
Valerio Bertello.




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