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IL PROLETARIATO MODERNO

1. IL CONSUMO COME CONDIZIONE DELLA PRODUZIONE

Dopo la scienza applicata l’altro aspetto cruciale della seconda rivoluzione industriale, direttamente conseguenza del precedente, è che la circolazione del capitale, in particolare il consumo, non viene più considerato un momento separato dalla produzione, ma parte di un unico processo ciclico, il ciclo del capitale. Fino a quel momento esso non si presentava come un processo effettivamente ciclico in quanto condizionato da alcune strozzature nel momento della circolazione, per cui si presentava come un processo lineare e come tale era pensato, avendo il suo significato ai due estremi, all’inizio e alla fine. In tal senso il processo era considerato come valorizzazione del capitale monetario D-D’, cioè estesamente D-M1…P…M2-D’, dove (in termini di valore) D’=M2>D=M1. Qui il capitale monetario D, dopo aver acquistato sul mercato i fattori di produzione M1=L+MP (fattori di produzione = forza lavoro + mezzi di produzione) assumendo così la forma di capitale merce, si valorizza nella forma di capitale produttivo P, cioè capitale come valore d’uso. Il ruolo di P è solo quello di valorizzare il capitale monetario (1), in quanto in tale forma M1 non solo viene mutato in M2 (prodotto), ma anche valorizzato, cioè M2 è tale che M2>M1. Qui la circolazione risulta scissa in due fasi distinte in cui domina il capitale monetario, cioè da una parte D-M1 e dall’altra M2-D’, dove quest’ultima appare solo come realizzazione del profitto, già determinato dalla fase precedente in quanto distribuzione, cioè come ripartizione del prodotto tra capitale e lavoro (2). Nel periodo liberista la trasformazione del prodotto in fattori di produzione è considerata garantita dalla concorrenza, che assicura l’allocazione ottimale delle risorse al prezzo migliore.
Ora, nel periodo taylorista, la prospettiva muta. Il processo considerato è quello del capitale produttivo P...P, cioè estesamente P...M2-D-M1...P, dove D compare solo come mediazione della trasformazione di M2 in M1, cioè M2-D-M1, che costituisce il momento della circolazione, dove M2=M1. In questo modo la circolazione non appare più scissa, quindi la soluzione di continuità rappresentata dalla circolazione può essere eliminata e diviene possibile porre il ciclo capitalistico come un processo effettivamente ciclico, cioè reiterabile potenzialmente all’infinito. Di conseguenza la distribuzione, quindi il profitto, appaiono (dal punto di vista quantitativo) secondari mentre essenziali divengono la regolarità e stabilità del processo di valorizzazione. Certamente nella circolazione continua a comparire, poiché in essa compresa come scambio, oltre al consumo individuale vero e proprio anche la ripartizione del prodotto tra le diverse classi, cioè si tratta sempre, anche se appare nella forma giuridica della stipulazione di un contratto, del momento politico della fissazione del salario e delle norme di lavoro, quindi del profitto. Inoltre tale momento appare sempre subordinato alla vendita del prodotto come realizzazione del valore, quindi alla fissazione dei prezzi ed al loro controllo e soprattutto alla fissazione qualitativa del livello dei consumi. In rapporto a tali problemi, quello che è essenziale e costituisce un evento che muta radicalmente la struttura del capitale è che esso include il consumo nella circolazione organizzandolo come un settore della produzione. Quindi acquisisce il controllo di tutti tali momenti, e li integra realizzando ciò che anteriormente era vero solo in potenza, l’unificazione tra produzione e consumo, e con ciò la realizzazione del processo capitalistico come ciclo, processo che fino a quel momento si presentava di fatto come lineare.
Perciò quello che importa è P, il capitale produttivo, cioè il capitale come valore d’uso, motore reale dell’intero processo, ma inteso come capitale complessivo, quindi centrale diviene la produzione in quanto tale su scala sempre più allargata. Quindi per ogni capitalista diviene prioritario trovare nel mercato i mezzi di produzione e la forza lavoro nella quantità e qualità opportune. Ma ciò il capitale concorrenziale non lo può garantire: produrre tale certezza è un compito che solo il capitale sociale può assolvere. La socializzazione del capitale è proprio la novità che caratterizza il periodo in esame (3).
Se il fine è la produzione sempre più allargata, il capitalista è interessato, come venditore del prodotto M2=MS+MP (prodotto = merci salario + mezzi di produzione), non tanto al profitto quanto al consumo, sia quello individuale di MS che quello produttivo. Ciò perchè come acquirente è interessato non tanto alla distribuzione del valore, quindi a massimizzare il profitto, quanto alla disponibilità dei fattori di produzione nel mercato, quindi alla reiterazione del ciclo, cioè alla produzione dei fattori della produzione nelle due forme della forza lavoro e dei mezzi di produzione. Per quanto riguarda la forza lavoro questi due fini, produzione e consumo, coincidono in quanto il consumo individuale è immediatamente produzione della forza lavoro stessa e quindi ha luogo come conseguenza della circolazione, in quanto premessa al suo consumo produttivo nella prod_- questi due fini, produzione e con questi due fini, produzione e consumo, coincidono in quanto il consumo individuale è immediatamente produzione della forza lavoro stessa e quindi ha luogo come conseguenza della circolazione, in quanto premessa al suo consumo produttivo nella prod_- questi due fini, produzione e consumo, coincidono in quanto il consumo individuaentre quello della forza lavoro esce dal ciclo, poiché dopo L-V (vendita della forza lavoro contro salario, cioè ripartizione) e V-MS (acquisto di mezzi di sussistenza mediante il salario), che si svolgono nella circolazione, la fase successiva, quella del consumo individuale CS, cioè la realizzazione del valore d’uso di MS, esce dalla circolazione e ha luogo nella sfera del consumo, per riprodurre la forza lavoro, cioè MS...CS...L. Nel loro insieme questi passaggi realizzano il ciclo della forza lavoro, cioè L-V-MS...CS...L, dove si realizza la produzione della forza lavoro, inverso a quello che si presenta al capitale, cioè L...P...MS-V-L, finora da esso trascurato. Ora, poichè il capitale è interessato a rendere ciclico il processo capitalistico, deve includere in esso il ciclo della forza lavoro, finora esterno in quanto in parte compreso nella sfera del consumo. Cioè deve internalizzare tale ciclo analogamente a quanto avviene per le macchine, coerentemente all’obbiettivo di ridurre la forza lavoro ad accessorio della macchina.
Nell’ambito del capitale taylorista i servizi al consumo sono, per quanto concerne il prodotto, di due tipi: finalizzati al consumo immediato, cioè consumo di sussistenza, e al consumo differito, anticipato o posticipato, come riproduzione. Tra i primi: commercio, pubblicità, editoria, comunicazione di massa, intrattenimento, ristorazione, turismo, trasporti, sanità. Tra i secondi: istruzione, asili, assicurazioni, edilizia, assistenza, protezione civile, sicurezza. Nel loro complesso provvedono alla riproduzione della forza lavoro, cioè del lavoro sociale, a breve e a lungo termine. Si tratta di attività tutte interne al ciclo capitalistico, ma questa realtà si è prodotta solo recentemente. In passato la creazione della forza produttiva del lavoro sociale faceva capo ad una attività sociale che si svolgeva nel consumo, i cui risultati storici erano stati appropriati dal capitale, sfera però a quel tempo fuori del capitale in quanto fuori dalla sfera della produzione, cui allora era limitata l’azione del capitale. Successivamente è il processo stesso che viene appropriato e pianificato dal capitale secondo le proprie esigenze. Questo significa che L non viene più prodotta dalla sfera del consumo in quanto sfera autonoma ma, poiché questa è divenuta parte della circolazione e questa della produzione, la forza lavoro è prodotta da un particolare settore della produzione, così come MP è il risultato di un altro settore, quello della ricerca e sviluppo, riorganizzato come fonte permanente di innovazione. Poiché MP è il risultato dell’oggettivazione di una specifica L, cioè del lavoro scientifico, mentre MS, come anche lo stesso MP, sono il risultato di MP (in particolare l’agricoltura industrializzata e le macchine utensili), i processi delle sfera del consumo (fondamentale certamente la formazione, ma anche in generale l’ambiente sociale) non solo sono parte integrante delle condizioni della produzione e della circolazione, quindi del ciclo del capitale e della sua iterazione, ma acquisiscono una posizione strategica in quanto alla base sia della produzione di L che di MP. Ma il fatto che L ed MP vengano prodotte non significa che il lavoro divenga l’unica fonte della produzione. In realtà si tratta sempre della medesima invariabile condizione dell’esistenza umana: produrre se stessa attraverso l’unione di lavoro e natura (5). Fattori che nel capitale integrato hanno quello umano la forma dell’intelletto collettivo, quello naturale di un sistema di macchine in cui sono materializzate le forme astratte della natura, le sue leggi. Del resto, la moderna produzione di L richiede MP su scala crescente.
Quindi, alla base della seconda rivoluzione industriale stanno due nuove forze produttive, delle quali il capitale si appropria per produrle in forma ad esso adeguata, il lavoro scientifico e le attività riproduttive, alla base rispettivamente della produzione di MP ed L. Il tentativo del capitale è di impadronirsi di queste che sono le fonti stesse delle forze produttive sociali, cioè si tratta dell’aspirazione del capitale alla realizzazione del proprio obbiettivo storico, la completa integrazione nella società come società del capitale, sussumendo l’intero metabolismo sociale ai propri scopi, fra i quali il profitto, ma prima ancora la perpetuazione della sua sorgente, il ciclo capitalistico. Ciò che spinge il capitale in questa direzione è un fine che è allo tempo stesso economico e politico. Poiché le nuove tecnologie richiedono grandi investimenti a lungo termine, implica enormi investimenti e lunghi tempi di progettazione, diviene necessario, invece di massimizzare il profitto, sottrarre il profitto, quindi l’accumulazione, alle contingenze del mercato e soprattutto della lotta di classe, ciò che presuppone il controllo politico di tutto il ciclo, particolarmente dove tale controllo è più carente, nel consumo. Tale controllo si manifesta a livello generale come istituzione di monopoli ed intervento statale nell’economia, cioè come controllo dei prezzi e dei redditi, ma viene attuato al suo livello più fondamentale direttamente nel luogo di lavoro, dove si realizza concretamente il rapporto di produzione, come comando sul lavoro ottenuto attraverso un uso classista della tecnica, cioè mediante il movimento delle macchine e l’organizzazione del lavoro. In particolare, come conseguenza della radicale trasformazione della produzione e più in generale delle forze produttive sociali che in essa si manifestano, la seconda rivoluzione industriale si presenta come un rivoluzionamento ancor più profondo del consumo, considerato ora come produzione e riproduzione di tali forze. Infatti, è proprio l’apparizione di queste forze produttive che determina l’unificazione del ciclo capitalistico. Si tratta dell’applicazione della scienza alla produzione, e della sua immediata conseguenza, la trasformazione del lavoro diretto in lavoro indiretto e l’introduzione di nuove tecniche di organizzazione del lavoro.
Ma in questo modo muta il rapporto di produzione immediato, ponendo le premesse di uno scontro di classe come momento necessario al completo sviluppo di tali forze produttive.

(1) Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro.Ÿ(Il Capitale, II, I, 1)
(2) La parte del capitale comprende ammortamento e profitto (solo potenziale prima di P, poi realizzato e reinvestito), quella del lavoro è rappresentata dal monte salari.
(3) Qui il capitale si trova paradossalmente nella necessità di superare la contraddizione fondamentale in un senso opposto ai suoi interessi proprio nel momento in cui li persegue.
(4) Cioè consumo come realizzazione del valore d’uso delle merci salario nella circolazione come presupposto della realizzazione del valore d’uso della forza lavoro nella produzione.
(5) Come già ricordava Marx ne Il programma di GothaŸ, citando W. Petty.

2. LE DUE FRAZIONI DEL NUOVO PROLETARIATO: BUROCRAZIA PRODUTTIVA E OPERATORI SOCIALI

Ma i risultati più clamorosi dell’applicazione della scienza alla produzione, e del taylorismo come sua conseguenza, sono quelli relativi alla struttura di classe. L’avvento del taylorismo significa, infatti, semplicemente il deperimento e la lenta dissoluzione del proletariato classico, cioè quello degli operai di mestiere che avevano fino a quel momento occupato la scena del dominio reale, e la nascita di un proletariato moderno che operando in condizioni radicalmente nuove mostra caratteristiche non solo inedite ma del tutto impreviste. In tal senso tratto fondamentale del nuovo proletariato è di essere interamente prodotto del capitale, in quanto il capitale integrato producendo le proprie condizioni produce la propria forza lavoro. Ciò rende il proletariato moderno profondamente diverso da quello classico. Anteriormente il proletariato, come anche la borghesia, erano il prodotto della storia precedente al capitale, e il proletariato era ancora legato alle sue origini contadine o artigianali, sia materialmente che ideologicamente. Infatti, da una parte conserva i suoi rapporti con la campagna ed è comunque padrone del suo mestiere, ciò che gli consente di non essere totalmente dipendente dalla sua condizione proletaria, dall’altra questa condizione non ancora del tutto proletarizzata gli consente anche una autonomia di pensiero, per cui esiste anche una cultura proletaria distinta dal quella borghese, e non influenzata da essa, sebbene di tipo tradizionale. Tale autonomia complessiva corrisponde ad un rapporto del proletariato con la borghesia nel quale essa non ha ancora trasformato il processo produttivo in forma adeguata al capitale, avendo solo iniziato ad introdurre la divisione del lavoro industriale e le prime macchine moderne. Poiché il processo di lavoro dipende in larga misura dal mestiere dell’operaio, questi considera il capitalista come una presenza estranea al mondo proletario, un intruso che si è appropriato di tale mondo per svolgervi un ruolo puramente parassitario, non diversamente da come egli aveva considerato fino a poco tempo prima, in quanto servo o affittuario, il proprietario terriero. Ciò generava un ribellismo certamente endemico ma privo di sbocchi rivoluzionari, che produceva fughe dalla fabbrica o rivolte senza prospettiva, che si proponevano solo un ritorno al passato, al lavoro libero degli antichi artigiani o un ritorno alla terra.. Si tratta del proletariato di Marx, della I Internazionale, che esprime nella Comune di Parigi il culmine del suo ciclo storico. Dopo ha inizio la II rivoluzione industriale, dalla quale nasce una nuova figura di proletario, dove l’operaio di mestiere scompare come ruolo egemonico per lasciare il posto all’operaio generico, dequalificato. Ma si tratta del vero passaggio ad un modo di produzione propriamente capitalistico, quello in cui un sistema di macchine fronteggia non il singolo operaio, ma il produttore collettivo.
Tale mutamento non si compie dall’oggi al domani e anzi comporterà trasformazioni complesse che si verificheranno in tempi e ritmi diversi, secondo gli strati sociali coinvolti. Come sempre i mutamenti sociali, - e ancor più quelli nella sfera della coscienza, - seguiranno con grande ritardo quelli inerenti la produzione, comportando una dinamica complessa e profondamente contradditoria. Se tale processo si svolge in forme differenti secondo le situazioni, tuttavia esso si caratterizza inequivocabilmente per il fatto che, pur avendo la sua origine nella produzione diretta, i suoi momenti fondamentali appartengono alle fasi del ciclo capitalistico che si collocano fuori di essa.

Il taylorismo produce una profonda differenziazione all’interno del proletariato classico della prima rivoluzione industriale, ma anche una sua nuova omogeneizzazione ad un diverso livello. Il vecchio proletariato era già costituito da due diverse categorie: operai a bassa qualificazione, risultato dell’introduzione delle macchine in alcuni rami della produzione, e operai qualificati, possessori del loro insostituibile mestiere, la cosiddetta aristocrazia operaia, categoria a sua volta frazionata nei mestieri tradizionali. Il taylorismo produce in tutto il vecchio proletariato una brutale omogeneizzazione al livello più basso, quello dell’operaio semplice dequalificato, possessore unicamente di una forza lavoro generica, quindi intercambiabile, cioè flessibile e sostituibile. Inoltre, amplia straordinariamente l’estensione della classe attraverso un intenso inurbamento del proletariato agricolo. Ma al contempo produce una pletora di nuovi ceti produttivi assai diversificati fra loro, dalla fisionomia ambigua in quanto da una parte proletarizzati e dall’altra con funzioni che li contrappongono ai produttori diretti, avvicinandoli all’antico ceto impiegatizio. Ma tali ceti possiedono il tratto comune di costituire il più caratteristico prodotto della seconda rivoluzione industriale, cioè del taylorismo in quanto applicazione della scienza sociale, quindi destinati ad una rapida proletarizzazione, per cui il nuovo proletariato risulterà nel suo complesso assai più omogeneo di quello classico.
L’esistenza di tali ceti non era certo una novità assoluta, ma i loro predecessori rappresentano rispetto all’impiegato moderno quello che è l’artigiano in rapporto all’attuale operaio di linea. I ceti attuali sono, rispetto a quelli antichi, gruppi sociali appartenenti a epoche diverse e profondamente trasformati da radicali cambiamenti, ma con la decisiva differenza di essere l’impiegato la figura di un nuovo strato sociale in formazione, mentre l’operaio quella di una classe sociale in declino, nonostante la straordinaria espansione numerica, tendenza peraltro destinata ben presto ad invertirsi.
Anteriormente alla prima rivoluzione industriale i precursori dei moderni impiegati esistevano come elementi della piccola e media borghesia, cioè forme residuali di quella borghesia medievale da cui era emersa la grande borghesia, quella industriale, che condannerà gli altri ceti borghesi a divenire semplici vestigi dell’epoca precedente. Questi appartengono alle libere professioni usualmente al servizio delle classi dominanti, al piccolo commercio sempre fedele all’ordine costituito, alle antiche banche custodi di grandi patrimoni. Ad essi si aggiungono i funzionari dello stato, da tempo di estrazione borghese, dopo aver soppiantato i chierici. Questo è il ceppo originario dei moderni ceti impiegatizi, radice della fondamentale ambiguità rispetto alla loro collocazione sociale, problema da sempre molto dibattuto. Ma questa forma nascente non deve essere confusa con ciò che diverrà in seguito, secondo un processo di trasformazione che procederà per innesti successivi mutandone profondamente il carattere. Del resto non diversa è la nascita del proletariato classico, risultato dell’assorbimento di elementi declassati provenienti dalla campagna da parte del ceto artigianale, che modifica radicalmente gli uni e gli altri. Tali nuovi ceti nascono attraverso un processo che inizia nell’industria e poi si allarga fuori dalla produzione per giungere a maturazione fuori di essa.
Con la prima rivoluzione industriale nasce la grande industria e con essa quella fascia sociale intermedia tra capitalisti ed operai costituita dai ceti impiegatizi, che svolgono la precisa funzione di coadiuvare il capitalista nelle sue funzioni amministrative e di sorveglianza, trovando quindi nelle figure del contabile e del caposquadra i suoi tipici esponenti. La loro consistenza è numericamente irrilevante, l’estrazione veteroborghese, proveniendo dalle professioni e dall’artigianato. La funzione è quella di agire come emanazione del proprietario, e come tali appaiono, essi stessi si considerano e vengono retribuiti. Ma un elemento importante li distingue, poiché iniziano a supplire il proprietario in alcune funzioni che fino ad allora costituivano suo esclusivo appannaggio. In questo tali figure sono il germe del futuro ceto impiegatizio, che finirà per assorbire totalmente le funzioni non solo di gestione, da esso ancora svolte sotto la supervisione del capitalista, ma anche quelle di ideazione, delle quali i capitalisti della prima rivoluzione industriale, compiuta essenzialmente da ingegneri imprenditori, sono ancora i depositari.
Solo con la seconda rivoluzione industriale si ha la nascita dei ceti impiegatizi moderni. Con la radicale separazione del lavoro intellettuale da quello manuale operata dal taylorismo, tutto ciò che nel lavoro dell’operaio e del caposquadra costituiva attività decisionale e gestionale viene trasferito negli uffici di programmazione, la cui funzione è ottimizzare il processo produttivo dopo avene analizzato le fasi fino ai singoli movimenti dell’operatore, quantificandone così i costi in ogni singolo segmento. In tal modo la direzione diviene un compito così complesso che non può più essere svolto da pochi sorveglianti sulla base della loro personale esperienza, ma richiede addetti specializzati che valutino tutti gli elementi, organizzino il lavoro in base a quelli e ne dirigano l’esecuzione secondo un piano che lo determina fin nei minimi particolari. Tutto questo genere di elaborazione trova la sua sede in uffici separati dai luoghi della produzione diretta, gli uffici tempi e metodi, e viene svolto da personale apposito. Di qui la nascita all’interno delle fabbriche di nuove strutture accanto alle officine, cui vengono affidate competenze che prima erano patrimonio degli operai qualificati e dei capi, figure che differivano poco tra loro e facevano parte dello stesso mondo. A loro volta queste nuove strutture sono taylorizzate, per cui la loro competenza è diversa da quella antica, patrimonio di pochi individui e acquisita dopo un lungo tirocinio, ma è una conoscenza diffusa, distribuita lungo le catene gerarchiche della struttura stessa.
Ma la concentrazione di capitale e la produzione di massa che hanno prodotto il taylorismo e che a loro volta ne sono il risultato, comportano una razionalizzazione tayloristica anche delle altre fasi del ciclo che precedono e seguono la produzione. Per cui si ha un grande sviluppo della commercializzazione dei prodotti, quindi dei servizi di promozione e vendita, ma anche del marketing, cioè l’analisi del mercato e dei bisogni del consumatore prima del lancio di un prodotto. A ciò si aggiunge l’esigenza di una innovazione continua, con la conseguente diffusione di laboratori di ricerca e sviluppo all’interno delle fabbriche, strettamenti collegati agli uffici di progettazione. Tutto ciò determina non solo la nascita di nuove figure professionali ma anche la taylorizzazione delle stesse, con una conseguente accentuazione della divisione del lavoro, contribuendo ad accrescerne il numero. Inoltre il passaggio della forma della proprietà delle imprese da quella individuale o familiare a quella azionaria, l’aumento delle dimensioni e quindi la necessità di finanziamenti giganteschi, lo sviluppo della vendita a rate dei beni di consumo durevole, tutto ciò comporta un enorme sviluppo dei servizi finanziari e legali, sia presso le imprese che presso le banche e le assicurazioni.
Tutte queste nuove mansioni si affiancano ai compiti tradizionali, di carattere amministrativo, ed anche a questi ultimi vengono applicati i metodi del taylorismo, con la riduzione dei compiti assegnati a ciascun lavoratore e l’adozione di procedure normalizzate. Così scompaiono gli impiegati tuttofare fiduciari del capitalista, sostituiti da strutture simili a catene di montaggio, cui è demandato il compito di produrre decisioni e soluzioni normalizzate di problemi normalizzati, da cui consegue una ulteriore forte espansione anche del settore impiegatizio tradizionale.
Per cui all’interno della fabbrica nascono giganteschi apparati burocratici cui sono attribuite sia le funzioni padronali del vecchio ceto impiegatizio, essenzialmente amministrative, che le nuove funzioni sottratte ai vecchi operai di mestiere, ma anche mansioni interamente nuove, generate dalla nuova organizzazione della produzione. Ciò determina la formazione di un ceto impiegatizio completamente nuovo, che differisce da quello tradizionale sia per il tipo di lavoro, limitato a pochi segmenti di procedure estremamente complesse ma costituite da semplici operazioni standardizzate, sia per potere decisionale - ora limitatissimo - e quindi anche per la effettiva posizione sociale, dato che ogni impiegato è divenuto facilmente sostituibile. Quindi si tratta di un ceto che si presenta molto simile agli operai di linea, in quanto ha una consistenza numerica paragonabile e tratti analoghi per il grado di proletarizzazione. Per contro, appare assai differente dal vecchio ceto impiegatizio, numericamente ristretto e fiduciario del capitalista, cui venivano affidati compiti complessi. Si tratta quindi di un soggetto interamente nuovo, la cui collocazione sociale rimane ancora ambigua e i contorni indefiniti, elementi che saranno determinati dalla successiva evoluzione. Contemporaneamente le funzioni di comando sono concentrate in una fascia di vertici direttivi, in genere provenienti dalle funzioni amministrative che però hanno in realtà una semplice funzione di supervisione e sintesi, in quanto negli uffici la taylorizzazione non può essere così radicale come nelle officine, perché si tratta di un tipo di lavoro concettuale e fondato sulla gestione dei rapporti sociali. Ciò pertanto fa sì che la concentrazione di potere ai vertici aziendali sia solo apparente in quanto le decisioni che vengono prese sono tali solo sotto il profilo politico, in quanto gli aspetti tecnici, cioè oggettivi, sono elaborati preventivamente dagli apparati burocratici sottostanti, che svolgono per i vertici decisionali il lavoro preparatorio elaborando le informazioni disponibili fino a produrre una serie di opzioni oggettive sulle quali poi vengono prese dai vertici le decisioni strategiche scegliendo quelle più vantaggiose sotto il profilo politico, cioè dei rapporti di potere interni ed esterni. Infatti i vertici aziendali solo a partire da un certo livello sono il punto d’arrivo di un percorso di carriera, poiché ai livelli superiori sono emanazione diretta della proprietà azionaria. Così i vertici divengono il luogo del potere puro, separato da ogni competenza, che viene esercitato tramite il dominio sugli apparati sottostanti, che svolgono il reale lavoro di elaborazione dei dati, il luogo dove vengono in realtà predeterminate le decisioni e quello in cui sono eseguite. Cioè la taylorizzazione determina un cambiamento anche nella forma di gestione del potere, che diviene il potere burocratico.
Nasce così la burocrazia di fabbrica come ceto e come tecnica, si costituisce cioè quella che si può considerare una frazione del proletariato moderno. La burocrazia è una tecnica di organizzazione del lavoro, è il taylorismo applicato al lavoro intellettuale. Come ogni tecnologia il suo fine è duplice: razionalizzazione e comando, per cui controllando il lavoro intellettuale, che già comanda il lavoro manuale, la burocrazia si pone come nuova forma di potere della borghesia, accanto e a volte opposto a quello economico e politico. Ma è anche qui che si sviluppa l’innovazione e quindi la creatività scientifica che si trova in opposizione al potere burocratico.

Ma in questa creazione di nuovi ceti il taylorismo non si limita ad operare solo nel campo della produzione. La logica inesorabile della razionalizzazione e del controllo che presiede all’ampliamento del dominio reale vede in ogni limite una minaccia che rende necessaria una rapida estensione della sua azione al di fuori dell’ambito originario, per cui dovrà investire dopo la produzione anche la circolazione in quanto consumo. Anche qui il fine è sia economico che politico. Da una parte assicurare la riproduzione della forza lavoro, dall’altra, ciò che in realtà è il fine principale, produrre un rapporto sociale con caratteristiche oggettive e soggettive definite, cioè in primo luogo la separazione tra forza lavoro e mezzi di produzione, quindi il comando sulla forza lavoro, fine che viene perseguitio con mezzi diversi, nel settore pubblico e in quello privato.
Nella sfera del consumo occorre distinguere tra consumo immediato e consumo differito, diversi per la scala temporale su cui si attuano, ma anche in quanto ciò determina la modalità sociale in cui si realizzano. Il consumo immediato realizza la riproduzione a breve termine ed ha la forma prevalente di un atto individuale privato, mentre quello differito è finalizzato alla riproduzione a lungo termine della forza lavoro, ed ha in generale la forma di consumo sociale. Qui ciò che più colpisce è lo sviluppo da parte del capitale del carattere sociale della riproduzione a lungo termine, cioè del consumo differito, fino a farne una funzione affidata allo stato. A questa si aggiunge, - fatto non meno importante e legato al precedente, - la trasformazione della spesa pubblica in strumento di regolazione dell’economia. Infatti lo stato diviene un produttore di servizi su scala molto più ampia e diversificata di quanto non lo fosse in precedenza, compiti in passato limitati sostanzialmente all’ordine pubblico e alla difesa. Innanzitutto lo stato provvede ad una varietà di servizi personali, quali l’ istruzione, la sanità, strettamente intesi, ma anche, in senso più ampio, una serie di assicurazioni sociali, quali un sistema pensionistico per gli anziani, uno assistenziale per la tutela dei disoccupati e invalidi, costituito da uffici di collocamento e sussidi, ed infine grandi interventi nel campo dell’edilizia popolare. Ma in conseguenza di ciò aumentano gli investimenti in strutture pubbliche e complessivamente il peso del bilancio dello stato nell’economia, che espande i suoi organi amministrativi, moltiplicando ministeri ed enti pubblici. Lo stato si trova così a svolgere una funzione nell’economia che va molto oltre quella tradizionale, limitata alla gestione della moneta. Anzi, questo ruolo gli viene esplicitamente riconosciuto dal capitale, che demanda allo stato la regolazione anticiclica dell’economia attraverso la spesa pubblica, perno della dottrina keynesiana. Pertanto lo stato viene ad assumere anche il ruolo di amministratore dell’economia nazionale e su una scala e con una pervasività molto maggiori di quanto fosse mai accaduto in passato.
Come risultato di tali sviluppi la burocrazia di stato si scinde in due settori nettamente distinti, quello amministrativo e quello dei servizi personali. Mentre il primo non differisce sostanzialmente dal suo omologo nel economia privata, il secondo settore presenta invece caratteristiche peculiari, che eredita dalle vecchie professioni, essendo il suo nerbo costituito da medici ed insegnanti divenuti dipendenti della stato, con un rapporto di lavoro ibrido tra il quello professionale e l’impiegatizio. Ad essi si aggiungono nuove professionalità, come gli assistenti sociali, gli animatori, operatori in strutture assistenziali, etc. la cui attività ha le stesse caratteristiche, mentre altre attività tradizionali di tipo autoritario o repressivo vi si avvicinano, come la sicurezza e l’esercito. Ad essi si aggiungono poi i loro omologhi in strutture private, che si adeguano. Attraverso tali figure la dimensione pubblica dello stato entra nella sfera più intima della vita individuale: la famiglia, i figli ed il loro futuro, la salute fisica e mentale, le scelte di vita e finanche la vita stessa e la morte. Questa circostanza crea forti tensioni in quanto da una parte si ha una burocratizzazione dell’intimità degli individui e interferenze nei loro comportamenti. Dall’altra all’impiegato pubblico viene richiesto di svolgere il suo lavoro superando l’atteggiamento autoritario e paternalistico del funzionario tradizionale, inadeguato rispetto a tali nuovi compiti, che va sostituito con la persuasione, quindi sviluppando con l’utente una forma di comunicazione adeguata. Questo reciproco confronto si svolge con difficoltà in quanto si richiede all’utente una inevitabile pubblicizzazione della sua sfera privata più personale, da parte del funzionario un rispetto della personalità dell’utente, esigenze che incontrano forti resistenze, che rendono il dialogo arduo e carico di incomprensioni. Ma ciò è sintomo di un problema più ampio: la riproduzione a lungo termine della forza lavoro implica per il capitale il riprodurla entro ed insieme al rapporto sociale. Quindi l’autoritarismo con cui il capitale si rapporta con i lavoratori non è un residuo del passato ma un fine politico determinato. Non è accidentale che proprio qui nel consumo il contrasto appaia particolarmente aspro.
Pertanto, nonostante tali problemi, anche alla burocrazia statale vengono affidati compiti che ne ampliano straordinariamente il campo d’azione, ciò che provoca, come è già accaduto in fabbrica, una analoga trasformazione. Il taylorismo entra anche nella sfera pubblica determinando una più accentuata divisione del lavoro, che dequalifica il funzionario tradizionale ed il suo ruolo di servitore dello statoŸ, cioè dell’interesse pubblico, traducendosi in un processo di proletarizzazione. Ma tale dequalificazione è tuttavia meno drastica di quella dell’impiegato nel privato, in quanto il ruolo istituzionale del funzionario è complesso e giuridicamente piuttosto delicato, quindi discrezionale e strettamente normato al tempo stesso. Per questo nello stato sociale la dequalificazione di fatto non ha luogo, sia per le elevate competenze degli operatori, sia per la loro raffinata capacità di gestione del rapporto interpersonale e sociale. Anche nei comparti amministrativi la dequalificazione è relativa, in quanto i gradi intermedi ed elevati della gerarchia non incorporano competenze superiori a quelle già qualificate dei livelli inferiori, per cui possono gestire tutt’al più una limitata funzione di comando, data l’autonomia del lavoro svolto dai subordinati. Comunque, l’effetto congiunto dell’assunzione di nuovi compiti e della suddivisione delle competenze determina una enorme espansione della burocrazia statale.

Per quanto riguarda il consumo immediato, cioè i consumi di sussistenza, il capitale gli conferisce un carattere marcatamente individuale, assumendone così direttamente il controllo. Tale funzione crea un nuovo ambito produttivo ed un ceto corrispondente che opera in esso, con il compito di gestire la riproduzione immmediata della forza lavoro. Anche il consumo di sussistenza ha una duplice funzione sociale: una politica e l’altra economica. Riguardo quest’ultima il salario non è più considerato solo un costo di produzione ma un investimento non solo finalizzato alla produzione ma anche da una parte, quantitativamente, alla creazione di un mercato che assicuri un regolare assorbimento della produzione, dall’altra, qualitativamente, la riproduzione di una determinata forza lavoro. Ciò vale soprattutto per i beni di consumo durevole, le merci guida dell’universo mercantile taylorista, che possono essere acquistate dai salariati solo con forme di pagamento dilazionato. Ciò rende accettabile per il capitale la dottrina della piena occupazione, che permette la costituzione di un flusso regolare di beni dalla produzione al consumo, quindi una stabilizzazione del ciclo del capitale, pertanto della sua valorizzazione. Nel campo delle teorie economiche ciò verrà teorizzato ed eretto a sistema dal keynesismo. Si ha pertanto una espansione del credito al consumo, a livello familiare, e la banca da istituzione per la gestione dei grandi patrimoni, quindi di grandi investimenti, si trasforma in servizio a disposizione del consumatore.
Inoltre la commercializzazione dei prodotti diviene una funzione fondamentale. Essa rende necessaria una ristrutturazione della distribuzione, con la trasformazione delle piccole botteghe a gestione familiare in moderni centri commerciali, cioè la sostituzione del piccolo commercio con la grande distribuzione e la costituzione a monte di reti di distribuzione all’ingrosso e sistemi di trasporto capillari. Tale funzione crea così un ampio ceto di venditori professionali moderni ed una grande distribuzione con una forte presenza di salariati. Queste moderne strutture di vendita agiscono su di un terreno già preparato da intense campagne pubblicitarie organizzate dal produttore stesso. Questa divisione del lavoro crea una funzione che caratterizza vistosamente la società taylorista, la pubblicità commerciale, costituita essenzialmente dalla diffusione di modelli di consumo, progettati da agenzie specializzate o dagli stessi uffici aziendali.
Per la realizzazione di tali obbiettivi sono indispensabili mezzi di comunicazione di massa, che divengono così veicoli di diffusione non solo della pubblicità ma anche dell’informazione giornalistica e culturale, che si trasforma in informazione propagandistica. Anche questo settore sviluppa una categoria professionale di specialisti della comunicazione (giornalisti, pubblicitari, conduttori, animatori, etc.), che crea una forma di comunicazione particolare, che influenza potentemente il linguaggio comune e la percezione.
A questo livello compare non più dissimulato l’obbiettivo politico. La diffusione pubblicitaria di determinati modelli di consumo è già la diffusione di determinati stili di vita e quindi anche dei rapporti sociali in cui questi si realizzano. Quindi così si attua al suo livello più elementare, ma anche fondamentale, la riproduzione del rapporto di produzione, attraverso le scelte correnti che determinano il ritmo della vita quotidiana, scelte che implicano l’accettazione implicita dei rapporti sociali così come sono codificati nelle leggi, nelle teorie sociali, nelle istituzioni in generale.
Tutto questo gigantesco sviluppo di nuove attività nel settore del consumo e la modernizzazione di quelle vecchie, similmente a quanto accade nella produzione, dà origine ad un’altra frazione del proletariato moderno, gli operatori sociali.

3. CARATTERE SCISSO DEL NUOVO PROLETARIATO: LA CLASSE DELL’INFORMAZIONE E DELLA SOCIALIZZAZIONE

E’ dall’unità di produzione e consumo del capitale che consegue l’unificazione dei vari ceti dei servizi in una nuova classe sociale. Ma se il ciclo del capitale è unitario la sua materializzazione sociale, il nuovo proletariato da esso prodotto, in un primo momento possiede solo una unità oggettiva. Questa emerge lentamente da una iniziale eterogeneità, il cui aspetto più evidente è la sua polarizzazione in due figure distinte, il burocrate di fabbrica e l’operatore sociale. Infatti in un primo momento tale unità non sembra corrispondere a realtà, poichè come risultato immediato del taylorismo ha luogo un duplice processo. Da una parte un enorme accrescimento numerico della classe operaia e con esso una sua omogeneizzazione nella figura dell’operaio di linea. Ciò comporta una apparente espansione della sua forza nel conflitto sociale, fino a farne il protagonista assoluto. Anzi, tale evento suscita l’attenzione universale e tutti concordano nel riconoscere che si sono realizzate le previsioni marxiane, secondo le quali è il capitale a produrre i suoi seppellitoriŸ, a creare e organizzare il proletariato concentrandolo nelle fabbriche in compagini sempre più numerose, sottomettendolo alla disciplina del lavoro, a dotarlo degli strumenti intellettuali della sua egemonia politica elevandone il livello di istruzione.
Ma accanto a questo evento si registra anche, come risultato secondario e quasi sottoprodotto trascurabile, la nascita di una varietà di ceti intermedi dalla fisionomia contradditoria, dalla collocazione di classe incerta e con scarsissima presenza nei conflitti sociali. Si tende frettolosamente a classificare questi ceti nella categoria della piccola borghesia, a considerarli fedeli alleati del capitale, qualche volta schierati dalla parte del proletariato ma pronti a tradire quando si tratta di confronti decisivi per tornare alla loro collocazione oggettiva. Questi giudizi sono coerenti con le analisi classiche, che vengono riprese alla lettera, ma sono smentiti dai fatti. Intanto la consistenza numerica di questi gruppi è tale da non poterli considerare, seguendo i classici, elementi residuali e in via di estinzione. Al contrario, appaiono in costante espansione. Inoltre, se la loro coscienza di classe è vicina a quella della piccola borghesia tradizionale, la loro collocazione nel processo di lavoro, le mansioni svolte e il tipo di organizzazione del lavoro cui sono sottoposti, rende impossibile assimilarli ai vecchi cani da guardia del capitalista, e impone invece di considerarli forza lavoro proletarizzata. Tuttavia l’egemonia di recente conquistata dagli operai di linea distoglie l’attenzione da tali contraddizioni e dal fatto che le analisi disponibili sui ceti medi sono riferite ad un’epoca ormai tramontata e non possono essere trasferite in tale forma all’epoca taylorista. Tuttavia l’eterogeneità di tale strato sociale, la scarsa coscienza di sé e il conseguente oscillare tra proletariato e capitale, sembra confermare l’analisi classica e sciogliere tutti i dubbi sulla loro natura di cascami dello sviluppo capitalistico, avviati verso una sicura scomparsa..

Ma la questione centrale è proprio l’eterogeneità che riflette la crescita accanto ad una classe operaia taylorista compatta ed omogenea di uno strato di nuovi lavoratori salariati che vengono definiti solo per esclusione, come non operai. Definizione chiaramente inadeguata, ma ogni altra sembra incapace di comprenderli tutti, ciò che sembra una conferma a posteriori dell’inesistenza di tali ceti come classe. In generale le categorie correnti non sono abbastanza ampie, quali lavoratori del terziario, che esclude i servizi industriali, oppure la categoria degli impiegati, che allude a coloro che lavorano dietro una scrivania, o quella dei tecnici, che normalmente si riferisce a coloro che lavorano in officina e comunque comprende solo i quadri intermedi (2). La definizione più comune è quella di lavoratori dei servizi, ed è anche quella meglio utilizzabile ma resta generica in quanto non vi è un’idea univoca di cosa si intenda per servizio. Per poterne dare una definizione precisa occorre riferirsi al lavoro concreto svolto da tali produttori, cioè al lavoro utile. Allora il termine servizioŸ è quello adeguato in quanto un servizio è l’effetto utile di un valore d’uso, sia della merce, sia del lavoroŸ (Il Capitale, I, p.227). Così si può affermare che tali produttori svolgono due tipi di servizi: alla produzione in quanto preparatori e complementari ad essa, e servizi alla persona, cioè in generale al consumo, in quanto complementari alla produzione della forza lavoro. In questo senso si può parlare di tali ceti come dei lavoratori dei servizi.
Ma un elemento comune emerge con l’estendersi del taylorismo e il moltiplicarsi di tali figure. Infatti tutti costoro sono impegnati nelle fasi del processo di produzione che stanno a monte o a valle della produzione diretta, quindi impegnati propriamente nell’assicurare la circolazione del capitale, cioè le condizioni di esistenza dei fattori della produzione e la loro compravendita. Per costoro, se si considera la funzione da essi svolta nel processo produttivo, risulta chiaro che sono lavoratori il cui oggetto di lavoro è costituito dai mezzi di produzione e dalla forza lavoro. Quindi tale proletariato può essere definito come classe del lavoro indiretto. Tale è quindi la fondamentale caratteristica oggettiva che definisca il nuovo proletariato.
Ma essendo il lavoro diretto essenzialmente esecutivo e manuale, il lavoro indiretto tende ad assumere il carattere di lavoro direttivo e intellettuale, o comunque qualificato. Questo è chiaro per quanto concerne i servizi alla produzione, ma anche nei servizi alla persona il contenuto principale dell’attività non è l’aspetto materiale, del resto anche qui sempre più svolto attraverso macchine, ma quello comunicativo, nel senso di una socializzazione della propria individualità. Quindi, l’oggetto di lavoro del nuovo proletariato appare essere prevalentemente l’informazione e la comunicazione. Anche questi sono elementi che connotano i nuovi ceti, me se tali qualità del lavoro sono comuni a tutti lo sono però in misura variabile e inizialmente caratterizzano soprattutto quelli più immediatamente legati alla produzione materiale, cioè compresi nella burocrazia di fabbrica, costituendo quindi l’identità di tale frazione del nuovo proletariato. Che tutto ciò corrisponda a realtà è chiaro considerando lo sviluppo storico che ha generato prima la burocrazia di fabbrica poi gli operatori sociali, in quanto la specificità del proletariato moderno, ciò che sta materialmente alla base della sua potenziale unità, proviene dall’essenza stessa del taylorismo, per cui i caratteri che ne emergono sono comuni a tutto il proletariato moderno, compresi quindi gli operatori sociali. Se il concetto fondante del taylorismo sta nella separazione radicale della direzione del processo produttivo dall’esecuzione, ciò comporta una separazione netta tra coloro che producono, a cascata, informazione in unità complete (cioè modulari e standardizzate) immediatamente utilizzabili, e coloro che le utilizzano in questa forma traducendola in processi produttivi che possono produrre come risultato finale in generale un evento determinato, che può essere un prodotto materiale (un bene) oppure immateriale (un servizio). Quindi il taylorismo e la separazione che esso comporta si applica a ogni processo lavorativo. Questa separazione non nasce con il taylorismo. Prima vi era la divisione del lavoro tradizionale, quella dei mestieri. Il capitalismo si caratterizza per la presa di coscienza della forza produttiva della divisione del lavoro, cioè del lavoro sociale dispiegato, e ne fa, insieme al macchinismo che ne è la conseguenza, il carattere fondamentale del modo di produzione capitalista. Esso introduce la divisione del lavoro industriale, che il taylorismo porta alle estreme conseguenze. Tale risultato viene ottenuto prima separando nella produzione il lavoro intellettuale di ideazione e direzione dal lavoro manuale. Quest’ultimo, divenuto puramente esecutivo, può così subire una radicale parcellizzazione e semplificazione, potendo così infine essere affidato alle macchine. Ma un’evoluzione analoga segue il lavoro intellettuale separato, che viene prima trasformato in lavoro compilativo parcellizzato, in questo sempre più simile a quello manuale e come questo pronto per la meccanizzazione. Poi, divenuto eseguibile da macchine, verrà affidato ad apparati elettronici a programma, gli elaboratori di informazione. Del resto un ufficio funziona come un elaboratore a componenti umane, analogamente alla manifattura rispetto ai processi dell’industria meccanica.
In questo processo il lavoro intellettuale rivela la sua vera natura, cioè di essere, ridotto alla sua essenza, produzione e gestione di informazioni. Così è anche per il lavoro manuale, riducibile alla trasformazione dell’informazione nella forma di prodotto finale utile, in quanto processo materiale rivolto ad un fine determinato.
Sotto questo profilo risulta così che quanto accomuna i lavoratori indiretti è il fatto di operare entro processi dove centrale è la produzione e la gestione di informazioni. Essi sul piano oggettivo, cioè nell’ambito dell’organizzazione del lavoro taylorista, diverranno rapidamente in rapporto al lavoro diretto la classe egemone, questo in quanto il modo di produzione egemone, quello capitalista, diviene attraverso la seconda rivoluzione industriale un modo di produzione basato sull’informazione. Naturalmente ciò è vero in misura e modi diversi per i diversi ceti, in quanto la definizione di classe dell’informazione vale in maniera più aderente al concetto per la burocrazia produttiva, meno in generale per gli operatori sociali. Pochissimo per i lavori più dequalificati, ma qui siamo già nell’ambito del lavoro diretto, sempre più residuale.
Che questa trasformazione del lavoro sia il processo oggettivo è confermato dal fatto che tutta la moderna tecnologia dell’informazione nasce con la seconda rivoluzione industriale: per quanto riguarda la stampa periodica abbiamo macchina da scrivere, la linotype e la rotativa; per la produzione di immagini la fotografia, la riproduzione delle illustrazioni e il cinema; per le comunicazioni a distanza il telefono, la telescrivente, la radio e la televisione; per il trattamento dell’informazione calcolatrici ed elaboratori. Alcune tecnologie sono precedenti, ma non a caso segnano indelebilmente la storia della borghesia come strumenti indispensabili della sua affermazione. Sono la stampa a caratteri mobili o la calcolatrice meccanica, ma che non si erano più evolute tecnicamente fino alla seconda rivoluzione industriale. Oppure si trattava di idee che attendevano una tecnologia che permettesse la loro realizzazione pratica e la produzione di massa, come il moderno elaboratore in rapporto alla macchina analitica di Babbage. Si tratta di tecnologie che hanno potuto giungere ad una forma adeguata solo con la comparsa di due nuove scienze, la chimica e l’elettricità.

Tutto ciò significa che esistono le condizioni oggettive perché tali gruppi eterogenei nati con il taylorismo costituiscano una classe. Tuttavia ciò non comporta che essi formino effettivamente una classe, con interessi determinati ed obbiettivi da perseguire, cioè si tratta ancora di una classe in sé. Tuttavia ì suoi caratteri distintivi sono chiari in quanto classe dell’informazione. Ma l’informazione è solo l’oggetto di una attività, la comunicazione, che comprende tutte le sue specializzazioni: creazione, elaborazione, ordinamento, reperimento e trasmissione di informazione. Come tale è una attività eminentemente sociale, cioè produttrice di soggettività. Si può affermare che informazione e comunicazione sono l’aspetto oggettivo e soggettivo di una attività complessiva che è l’attività intellettuale, nella quale i due momenti non sono mai scissi. Infatti in un ambiente sociale la comunicazione produce informazione così come l’esistenza di informazione produce comunicazione. Da ciò consegue che la burocrazia di fabbrica, e più in generale il proletariato moderno, poichè produce informazione come prodotto del capitale, al tempo stesso produce socialità, quindi soggettività, in quanto la sua gestione è immediatamente produzione di rapporti sociali. Infatti, se si considera il rapporto sociale non solo oggettivamente, come rapporto di produzione, ma anche soggettivamente, cioè come scambio di contenuti soggettivi, di esperienze individuali e collettive, allora la comunicazione genera rapporti sociali e viceversa. Quindi la burocrazia di fabbrica come frazione del lavoro intellettuale è sia lavoro intellettuale in senso stretto, in quanto produce informazione e comunicazione all’interno del capitale, ma è anche lavoro di socializzazione in senso lato, cioè produzione e gestione di rapporti sociali. La produzione di informazione è quindi l’aspetto oggettivo del lavoro intellettuale mentre la comunicazione ne è l’aspetto soggettivo, cioè sociale. Anzi si può dire che il proletariato ha nella burocrazia come classe dell’informazione il proprio momento oggettivo, o classe in sé. Mentre come classe della comunicazione, quindi della socializzazione, è il momento soggettivo, o classe in sé. Aspetto questo che viene realizzato pienamente nella frazione degli operatori sociali. Ed è a questo livello che la burocrazia di fabbrica trova il momento della saldatura con gli operatori sociali, quello della socializzazione in quanto sviluppo della soggettività. Da parte loro gli operatori sociali tale momento unitario lo trovano nell’essere essi stessi produttori di una particolare forma di informazione.
Questa tensione tra soggettività ed oggettività si ritrova in tutto il proletariato. Infatti, considerando il lato del soggetto, il proletariato in quanto classe dell’informazione non solo elabora informazione ma esige un ambiente sociale adeguato a questa produzione, cioè un ambiente dove creazione e comunicazione di informazione non solo siano il presupposto l’una dell’altra, ma si identifichino. Ciò è possibile solo in un contesto sociale determinato, quello della comunicazione reale, non finalizzata ad altro che allo sviluppo dell’individuo stesso. Propriamente allora la classe dell’informazione, nella misura in cui si presenta come soggetto che produce i propri rapporti e quindi le proprie forme di socialità, diviene classe della comunicazione, che si contrappone alla classe dell’informazione come suo momento reificato, cioè determinato solo dalla propria funzione nella produzione capitalistica. Tale passaggio prende la forma del consumo e si compie nell’espandensi di tale coscienza del consumo nella produzione, dove diviene coscienza unitaria e può tornare al suo luogo d’origine come superamento in atto.
Quindi, almeno inizialmente, il soggetto che rispecchiandosi nel capitale esprime più compiutamente la contraddizione, essendone il prodotto diretto ultimo, è il proletariato come classe dell’informazione, inteso sia come il complesso del nuovo proletariato ma soprattutto come la frazione interna costituita dalla burocrazia di fabbrica, la più ricettiva rispetto all’ambiente creato dal capitale, finalizzato soprattutto alla sua esistenza e riproduzione. Tuttavia, se è lì, nei luoghi della sua vita lavorativa che può nascere l’esigenza di un nuovo rapporto, è all’esterno di essa, nel consumo, che si possono creare le attitudini soggettive alla creazione di nuovi rapporti. Esse sono precisamente la capacità di costruire ambiti realmente collettivi, reti di relazioni in cui l’individuo e la comunità si connettono direttamente, senza mediazioni, siano essi legami naturali o economici. Queste attitudini sono proprie degli operatori sociali.

La caratterizzazione del nuovo proletariato come classe dell’informazione e quindi della socializzazione, non esaurisce la complessità di tale figura. Infatti questo vale soprattutto per la burocrazia di fabbrica, ciò che fa sì che la socializzazione di cui si fa portatrice è un tipo specifico di socializzazione, limitata dal carattere dei contenuti, eminentemente funzionali al particolare ruolo lavorativo, quindi da contenuti tecnico-scientifici. La stessa caratterizzazione è mostrata dall’altra frazione del proletariato, quella degli operatori sociali, dove però la socializzazione costituisce un carattere primario, e determina i contenuti. Occorre considerare il carattere del nuovo proletariato da questo diverso punto di vista.
A questo proposito possiamo notare che in tutte le attività proprie degli operatori sociali la modalità prevalente è quella in cui operatore e utente entrano in rapporto personale concreto, in cui il lavoro utile non è mediato da un oggetto, nel senso che l’oggetto di lavoro è la persona stessa del consumatore oppure il consumo è inseparabile dalla persona del produttore del servizio. Ciò fa sì che le personalità stesse dell’utente e del produttore siano essenziali per la realizzazione del servizio. Quindi produttore e consumatore entrano in una relazione dove appare essenziale il grado in cui i soggetti sono individui sociali, cioè impersonano le forme correnti della socialità in un dato ambiente sociale e quindi esprimono concretamente la socialità di una comunità.
Con lo sviluppo dei servizi al consumo e l’entrata in scena degli operatori sociali si manifesta l’altra anima del nuovo proletariato in quanto classe della socializzazione, carattere che nel consumo, al contrario che nella produzione diretta, è vissuto immediatamente e non come realtà secondaria in quanto condizione di gestione dell’informazione. Del resto anche l’informazione che viene gestita dagli operatori sociali è di carattere diverso da quella su cui operano nella produzione, del genere tecnico scientifico. Si tratta di una comunicazione e quindi di una socialità di tipo retorico, volta più a sollecitare la sfera emozionale che quella razionale, legata più ad un pensiero intuitivo che ad una forma di ragionamento logico e deduttivo, cioè formale. Quindi tale frattura si manifesta a livello ideologico come rinnovata manifestazione della storica contrapposizione, al livello della dialettica interna al proletariato, delle due culture, quella scientifica e quella letteraria. Ma nonostante ciò le due frazioni hanno in comune il carattere oggettivo di lavoro indiretto, per cui si tratta di una frattura a carattere chiaramente soggettivo, quindi transitoria.
Il rapporto fra le due frazioni del nuovo proletariato è complesso. Da un lato vi è tra loro una opposizione in quanto entrambe aspirano a conquistare una sorta di egemonia all’interno del nuovo proletariato, spinti dalla concorrenza ad elevarsi nella scala sociale del capitalismo integrato verso posizioni di reddito e di potere superiori. Dall’altra vi è una visibile sovrapposizione delle due frazioni, in quanto partecipano delle caratteristiche di entrambe. Questo è particolarmente evidente in taluni ceti, ma in misura diversa accade in tutti. Infatti, ad esempio la comunicazione di massa e la formazione sono servizi al consumo ma creano e gestiscono informazione, sia relative al consumo immediato che al consumo differito. Le relazioni industriali e il management pur essendo tipiche della burocrazia produttiva sono applicazioni delle scienze sociali, cioè della psicologia e della sociologia, applicazioni che producono rapporti sociali nella produzione e contribuiscono esse stesse potentemente allo sviluppo di tali scienze. Quindi sono servizi alla produzione che creano e gestiscono rapporti sociali.
La sovrapposizione si ha dunque in modo particolarmente evidente nel campo della riproduzione del rapporto di produzione, quindi politico, sia a livello sociale generale che a quello locale nelle singole unità produttive. Infatti, considerando solo il primo livello, notiamo che fra i momenti della produzione di informazione quello che presenta maggiore sviluppo è quello della trasmissione. In effetti non è tanto la quantità di informazione prodotta, per la quasi totalità seriale e ripetitiva e meno ancora la qualità, mediamente assai scadente, ma soprattutto la sua diffusione e quindi il consumo da parte di ogni strato sociale e in ogni angolo del pianeta, cioè la comunicazione di massa. Nella realtà sotto questo profilo servizi fortemente qualificati, come le professioni tradizionali ora modernizzate - soprattutto quella medica e l’insegnamento - e la vendita, rientrano necessariamente nella comunicazione. Ma questa centralità della comunicazione ha la sua radice nel fatto che essa, in quanto attività connessa alla riproduzione del rapporto sociale di produzione, ha come fine principale la riproduzione della forza lavoro e soprattutto di quella parte sempre più essenziale, i lavoratori dell’informazione. Infatti l’esistenza stessa della classe dell’informazione è alla base dello sviluppo di due dei settori produttivi caratteristici della società taylorista, la comunicazione di massa e l’istruzione generalizzata, in quanto espressamente finalizzati alla comunicazione e anche in quanto necessari alla riproduzione della classe dell’informazione. Qui la forza lavoro attiva in tali settori costituisce un esempio tipico dell’ambiguità del nuovo proletariato avendo le caratteristiche di entrambe le frazioni principali del nuovo proletariato. Cioè usano l’informazione, quindi la strumentazione e la teoria relative ad essa, come strumento di lavoro, in questo simili a burocrati di fabbrica ed insieme sono impegnati nella produzione di rapporti sociali, esattamente come operatori sociali.
Così può entrare in gioco, dopo l’applicazione della scienza alla produzione e la rivoluzione dei consumi, il terzo potente fattore di trasformazione del vecchio capitalismo, la disponibilità e il consumo senza precedenti di informazioni. Ciò ha luogo prima nell’ambito della riproduzione come istruzione generalizzata, cui si aggiunge ben presto in forma massiccia la comunicazione di massa come sistema di produzione e diffusione di informazioni che agisce sul terreno già preparato dal sistema scolastico. Entrambi agiscono potentemente sulla scienza applicata in quanto costituiscono la base sulla quale si sviluppa la creatività scientifica, quindi il progresso tecnologico in quanto fondamento ultimo della riproduzione dei mezzi di produzione. Ma anche sui consumi di massa creando nuovi bisogni diversificati e complessi.
Tale sviluppo inizia precocemente. Di fatto l’istruzione di massa viene avviata con l’obbligatorietà della scuola primaria in vista dell’abolizione dell’anafalbetismo, programma che caratterizza l’avvento della grande industria ottocentesca, ma le sue potenzialità rivoluzionarie divengono evidenti quando in epoca taylorista vengono aperti gli accessi alla scuola secondaria e all’università.
La causa iniziale di tale trasformazione della scuola sta nel fatto che con il tramonto degli antichi mestieri scompare anche il modo in cui erano trasmessi, cioè l’apprendistato in quanto formazione sul lavoro. L’operaio taylorista non solo ha sempre meno abilità da trasmettere ma, operando in una fabbrica strutturata in ruoli rigidamente prefissati, non ne ha neppure la possibilità. Inoltre l’innovazione permanente necessita di una forza lavoro dotata di preparazione tecnico-scientifica di livello elevato, costituita da ingegneri e tecnici intermedi. Lo stesso discorso vale per i nuovi ceti impiegatizi, cui è indispensabile una preparazione di base elevata, svolgendo essi compiti che richiedono un certo livello di autonomia decisionale e capacità di trattare contenuti complessi.
Tale trasformazione esprime due esigenze del capitale. La prima è qualitativa e deriva dalla necessità di soppiantare la vecchia cultura con una nuova, sia nei contenuti che nelle modalità di trasmissione ed anche nelle finalità. I contenuti passano da una netta prevalenza di quelli letterari ed umanistici ad un progressivo ampliamento di quelli scientifici. La trasmissione da una forma passiva e semplicemente acquisitiva di contenuti determinati ad una attiva e fondata sull’elaborazione delle nozioni. Il mezzo passa dal contatto personale e verbale ad uno più impersonale e fondato sull’uso di immagini e di tecniche multimediali. I metodi globali divengono parcellari ed hanno per contenuto saperi specialistici organizzati in unità finalizzate all’autoapprendimento. La seconda esigenza è quantitativa e connessa all’uso pratico di tale cultura, cioè esprime da una parte la necessità di passare dalla semplice alfabetizzazione alla diffusione a livello di massa di una cultura generale superiore, e dall’altra il bisogno di passare dalla preparazione di una ristretta oligarchia dirigenziale alla formazione di un ampio strato di quadri intermedi per i compiti gestionali ed amministrativi, ma soprattutto di ricercatori ed ingegneri, cioè di addetti alla riproduzione e all’innovazione dei mezzi di produzione.
Questa nuova cultura fa subito la sua apparizione nella comunicazione di massa, che inizia, direttamente con la diffusione di trasmissioni, pubblicazioni e rubriche divulgative, e indirettamente tramite la letteratura popolare e la pubblicità, una gigantesca opera di modernizzazione dei costumi e di acculturazione, con forme di rapporto con il pubblico sempre più tendenti al coinvolgimento personale e alla comunicazione bilaterale. La radio e poi la televisione penetrano nelle case private, infrangono l’isolamento rurale, rompono la cappa opprimente della tradizione, inducono le giovani generazioni a cercare nuove prospettive. Giornali e periodici cessano di rivolgersi a ristrette cerchie cittadine e divengono consumo di massa, coinvolgendo ampi strati della popolazione negli affari generali della società.

Quindi questa appropriazione del settore della formazione culturale e tecnica e la creazione della comunicazione di massa da parte del capitale non è dovuto a semplici fini di razionalizzazione dei processi produttivi, ma consegue anche da un mutamento qualitativo della forza lavoro come esigenza della produzione. Cioè la comparsa di una classe sociale in via di costituzione, per la quale la formazione provvede alla riproduzione intellettuale a lungo termine e il sistema mediatico quella a breve termine. Per cui il rapporto di tali strutture con la classe dell’informazione è analogo a quello che essa ha con la riproduzione a breve e lungo termine. Ma nello stesso tempo questa cultura deve seguire le esigenze di questa nuova forza lavoro, legata ai contenuti concreti di cui essa si fa portatrice, prodotto delle nuove attività attinenti al lavoro indiretto e alle condizioni in cui si svolge, quindi in contrasto con quelle tradizionali legate al lavoro immediatamente produttivo.
D’altra parte, mentre compie questa funzione modernizzatrice la comunicazione di massa assolve anche alla funzione economica di stimolare i consumi al fine di assicurare la circolazione del capitale. Così anche la scuola, nel momento stesso in cui fornisce informazione diffonde anche valori, cioè una la base culturale che costituisce l’indispensabile piattaforma su cui poi è pobbibile costruire modelli di consumo complessi.
Ma in questa molteplicità di funzioni strettamente correlate emerge un fine primario, la riproduzione del rapporto sociale di produzione. Quindi questa nuova cultura non può essere solo utilitarista e modernizzatrice. Ad essa deve essere affidata una nuova funzione, la formazione del consenso, cioè non solo deve far sì che vengano accettati i rapporti sociali esistenti, ma ottenere che gli individui si identifichino in essi. Cioè con la comparsa del proletariato moderno il problema politico si pone al capitale in termini nuovi, cioè quello di imporre il rapporto capitalistico nelle nuove condizioni.
In passato questa funzione veniva già in parte svolta dalla scuola elementare dell’obbligo, ma essa aveva qui un ruolo sussidiario in quanto semplicemente integrava quella delle rigide strutture famigliari e religiose, nonché quella di istituzioni affini, come il notabilato, che pervadevano la società di autoritarismo. Ma questi valori tradizionali possedevano una ambiguità intrinseca in quanto fondati da una parte sulla religione e sul principio gerarchico, in cui tutti - dominati e dominatori - si riconoscevano, e dall’altra su una affermazione delle autonomie dei vari corpi sociali che caratterizzano le comunità tradizionali, la cui difesa aveva sempre alimentato il ribellismo endemico ma privo di sbocchi del mondo feudale, che si ritrova con le stesse caratteristiche nel dominio formale, e in misura ancora sensibile nell’operaio di mestiere. In tali epoche un certo livello di antagonismo di classe poteva essere tollerato, era anzi considerato normale dato il tipo di dominio esercitato dal capitale, di carattere essenzialmente esterno al processo produttivo, quindi parassitario, e in questo simile a quello feudale, cioè finalizzato esclusivamente allo sfruttamento di strutture sociali e processi di lavoro che aveva già trovato nella società come eredità storica.
Ora, dopo il deperimento della comunità proletaria questa forma di riproduzione del rapporto sociale esterna al capitale non può più essere mantenuta e questo per vari motivi. Il principale è la necessità di un maggior coinvolgimento del proletariato in una società ed in una struttura produttiva divenuta enormemente complessa, quindi vulnerabile. Inoltre, altrettanto importante è fornire ai proletari una base culturale più ampia, diversa da quella tradizionale, sulla cui base radicare una visione del mondo non più semplicemente passiva rispetto al sociale, ma che implichi un coinvolgimento attivo nella produzione e soprattutto nel consumo, cioè con l’accettazione di un modello di consumo coerente con la riproduzione della società del capitale in blocco, quindi finalizzato alla produzione sia del profitto che delle sue condizioni.
Naturalmente, oltre alla produzione del consenso il capitale sviluppa il suo dominio sul proletariato anche sul piano oggettivo incrementando la disciplina sul lavoro, ma spostando i modi del controllo da quelli autoritari e repressivi a quello più moderno della oggettivazione della disciplina attraverso un uso capitalistico della tecnologia e della organizzazione del lavoro, rendendo sempre più indiretto tale controllo. Ma per ottenere questo deve produrre un genere di tecnici addestrati a fare un tale uso della scienza e della tecnica, per cui anche in ciò la costruzione del consenso, cioè l’identificazione con il capitale diviene una condizione primaria della riproduzione dei mezzi di produzione.
Ma tale necessità del capitale non nasce solo, e non tanto, da un ribellismo spontaneo ed in un certo senso naturaleŸ, riflesso immediato ed incosciente allo sfruttamento - come accadeva nella società feudale, per fronteggiare il quale era sufficiente una elementare ideologia religiosa. Né nasce solo per le esigenze funzionali del capitale. Una tale necessità sorge dal fatto che sotto il dominio reale il rapporto tra capitale e proletariato si manifesta in tutta la sua intima contradditorietà, cioè insieme come reificazione e autocoscienza, quindi la produzione di una ideologia del consenso diviene per il capitale una questione di vita o di morte.
A ciò si aggiunge, quale compimento di una tendenza storica del capitale, la riduzione di tutti i rapporti a rapporti economici, ciò che cancella ogni altra ideologia, soprattutto quelle delle società naturali. Ma soprattutto lo sviluppo dei consumi accresce l’incidenza di una altro elemento storico del capitale, che il proletario, se nel lavoro è schiavo, nel consumo è libero e può produrre idee corrispondenti a tale autonomia. Il capitale, non potendo impedire tale produzione di autonomia deve contrastarla sul piano intellettuale.

(1) Qui il capitale si trova paradossalmente nella necessità di superare la contraddizione fondamentale in un modo contrastante i propri interessi proprio nel momento in cui più li persegue.
(2) L’accezione più comune è quella di attività preparatoria o complementare al lavoro produttivo diretto, ma in questo senso vi sono categorie di operai, come gli addetti alla manutenzione e gli attrezzisti, che sfuggono alla dequalificazione prodotta dal taylorismo e, pur non svolgendo un servizio secondo l’idea corrente, hanno molto in comune con i lavoratori dei servizi in quanto svolgono effettivamente un servizio alla produzione. Tali categorie ambigue di operai tendono a moltiplicarsi con la meccanizzazione del lavoro e tale definizione diverrà ancor più inadeguata con l’informatizzazione del lavoro diretto, cioè con l’automazione e l’apparizione e l’estensione con la qualifica di operatoreŸ delle cosiddette nuove professionalità, evento che segnerà la scomparsa del confine tra lavoratore direttamente impegnato nella produzione e lavoratore indiretto.

4. CARATTERE UNITARIO DEL PROLETARIATO MODERNO: LA CREATIVITA’ GENERALE

Le due frazioni del proletariato moderno, la burocrazia di fabbrica e gli operatori sociali, appaiono ad un tempo unite e divise. Da una parte hanno molto in comune: sotto l’aspetto oggettivo il fatto di essere lavoro indiretto in quanto volto non direttamente alla produzione ma a quella dei fattori della produzione, quindi attività essenzialmente di elaborazione di informazione, e sotto l’aspetto soggettivo il fatto di svolgere attività sempre più socializzate. Ma nello stesso tempo le due frazioni sono separate dal fatto di operare l’una con il mondo oggettivo delle leggi naturali, l’altra con il fluido e multiforme mondo umano soggettivo, ciò che crea modi di operare molto diversi e mentalità che stentano a mettersi in relazione. Tuttavia, l’integrazione del capitale, cioè del consumo nel ciclo della produzione, deve determinare nella struttura di classe una analoga integrazione. Nel capitale attuale, monopolistico neoliberista, risultato dell’integrazione tra capitale liberista e capitalismo di stato, le classi tendono a ridursi a due: borghesia e proletariato, ma ciascuna presenta delle frazioni interne. La borghesia moderna si articola in proprietà e dirigenza, la prima semplicemente classe percettrice di dividendi, la seconda effettiva classe dirigente, che amministra le imprese. La dirigenza è nominata dalla proprietà ma proviene dalla burocrazia, che è quella che effettivamente dirige l’impresa, e si confonde quindi con gli alti gradi di tale gerarchia. Il proletariato moderno, come si è visto, si articola in in lavoratori dei servizi alla produzione e in quelli dei servizi al consumo.
I servizi alla produzione sono finalizzati alla produzione dei mezzi di produzione, cioè macchine e materie prime. E’ questo il primo prodotto della modernità capitalista, poiché la società, in precedenza dipendente dalla produttività naturale, ora determina la produttività del proprio lavoro, quindi la propria riproduzione, come propria attività indipendente. Tali servizi sono fondati sulla gestione dell’informazione e sull’innovazione permanente, cioè sulla creatività. Ma quest’ultima, come anche la produzione e la gestione dell’informazione hanno come base comune la comunicazione e quindi la socialità. Si può quindi affermare che la forza produttiva rappresentata da tale proletariato è la socialità creativa. Il sapere che essa produce è opera collettiva, per cui la si può chiamare anche creatività sociale.
I servizi al consumo sono finalizzati alla riproduzione della forza lavoro, quindi sono servizi alla persona. Essi implicano direttamente una socialità adeguata, cioè la produzione di socialità, la quale determina i contenuti della comunicazione Ma nella misura in cui essi comportano sempre più l’uso di una tecnica materiale sofisticata e riguardano in misura crescente l’aspetto intellettuale della forza lavoro, i servizi al consumo sono strettamente connessi alla manipolazione di informazione. La forza produttiva corrispondente sarà la creatività sociale in quanto creazione di socialità, altro prodotto della modernità. Infatti in passato la società era strutturata sulla base di rapporti sociali naturali (gerarchie naturali basate su legami di sangue, sesso, età), poi da rapporti sociali fondati sul modo di produzione, che in quanto prodotto degli individui già costituiscono sono un primo passo verso l’autodeterminazione. Lo sviluppo di tale forza produttiva pone le basi per la creazione di rapporti sociali prodotti dagli stessi individui, quindi di una reale socialità che è creazione di se stessa. Questa si riverbera immediatamente nella sfera della produzione come comunicazione e quindi come socialità creativa, promuovendone lo sviluppo.
Le due frazioni del proletariato hanno entrambe come oggetto di lavoro l’informanzione e il rapporto sociale, ma rispetto ad essi operano in modo profondamente diverso. L’oggetto immediato su cui lavora la burocrazia produttiva è l’informazione, ma si tratta di una informazione altamente specialistica, cioè di informazione tecnicoscientifica fortemente formalizzata. Questo è il suo principale oggetto di lavoro, mentre la socialità lo è in maniera derivata e subordinata alle attività relative all’informazione, e ne assume quindi il carattere. Infatti se i contenuti sono tecnici, formalizzati e volti a fini legati alla produzione materiale, il rapporto in cui ciò si realizza sarà di tipo funzionale, cioè diretto alla realizzazione di fini specifici secondo un progetto razionale, e impersonale. Al contrario per l’operatore sociale l’oggetto di lavoro immediato è la persona o il gruppo, quindi il rapporto sociale con essi e fra essi, rapporto che quindi avrà carattere emotivo, personale e diretto, tendenzialmente improntato alla gratuità piuttosto che all’efficienza, volto a creare situazioni generali di armonia tra gli individui, piuttosto che obbiettivi particolari. I contenuti della situazione sociale sono conseguenza del rapporto, che in tale contesto ha la priorità sui contenuti, che saranno determinati dal suo carattere. Quindi il contenuto del rapporto è di tipo genericamente umano, cioè attinente al campo dei saperi umanistici, e formalmente tale dinamica si sviluppa soprattutto dove gli strumenti di lavoro sono le scienze umane. Ma ancora più specifica è la struttura del discorso, definita in opposizione al discorso scientifico, quindi la forma è retorica, cioè stilisticamente di tipo letterario e tendenzialmente estetizzante, il cui scopo non è tanto la verificazione logico-deduttiva o fattuale di una affermazione definita, ma la persuasione o anche l’incitamento a operare in un senso più o meno definito, e l’effetto voluto perseguito facendo leva più sul coinvolgimento emotivo e sull’appello a valori esistenziali che su una ponderazione distaccata. E’ chiaro che si ritrova nel proletariato moderno quella dicotomia che nella cultura è noto come questione delle due culture, umanistica e scientifica, opposizione della quale la teoria rivoluzionaria già da tempo conosce le cause, avendo comprovato che va fatta risalire alla divisione del lavoro, dove la frattura principale ed originaria è quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Frattura che il proletariato è storicamente chiamato a risolvere nel momento stesso in cui deve lottare per la sua emancipazione, lotta nella quale risolve parimenti la sua opposizione interna in due frazioni unite e contrapposte, nello scontro con la borghesia da cui la separa una contraddizione irrisolvibile.
In passato tale opposizione coincideva con lo schieramento di classe essendo la divisione del lavoro un fatto progressivo proprio per il fatto che permetteva a certe classi sociali di emanciparsi dai compiti sopravvivenziali immediati e dedicarsi ad attività intellettuali non immediatamente utili e remunerative (chierici, borghesi, intellettuali di ogni genere), in generale al servizio del potere per compiti pratici (contabilità, ingegneria civile e militare), oppure in modo più parassitario svolgendo il ruolo di cortigiani o di produttori di monumenti artistici e letterari aventi lo scopo di diffondere ed eternare la fama dei loro signori. Sotto il capitalismo tutto questo apparato è divenuto produttivo al fine di eternare non tanto i singoli capitalisti ma la società capitalistica stessa. Perciò lo stesso proletariato è chiamato nel suo ruolo di produttore collettivo totale a svolgere entrambi i ruoli, cioè sempre più di essere il produttore della sua stessa schiavitù come anche degli strumenti della sua liberazione. In tal senso contiene in sé sia le funzioni di dominio, tra cui la produzione di ideologia borghese, che quelle, poiché il sistema si riproduce in modo contradditorio, della sua emancipazione.
Infatti nell’insieme, come le due frazioni di proletariato tendono ad unificarsi nel proletariato moderno unitario, così questi processi che producono il nuovo proletariato convergono fino a configurare una nuova forza produttiva, la creatività generale, sintesi della produzione di saperi e rapporti sociali, mediati reciprocamente. Essa è la specifica forza produttiva sviluppata dal proletariato moderno, la prima veramente universale in quanto realmente collettiva e della quale non è possibile impadronirsi da parte di una classe espropriandone un’altra. Tale forza produttiva determina il rapporto di produzione realizzando sempre più il fatto che Ÿla principale forza produttiva è il proletariato stesso.Ÿ Essa caratterizza il proletariato moderno in quanto capacità di produzione fine a se stessa, cioè non finalizzata ad altro che alla libera estrinsecazione dell’individuo. Produzione questa che si realizza in modo unitario, sia come produzione di rapporti sociali che come sviluppo materiale e spirituale sempre più allargato e attuato socialmente.
La creatività generale è creatività essenzialmente collettiva, non quella romantica e mitica di individui eccezionali. Si sviluppa in una sintesi a partire dalla realizzazione pratica della scienza, che determina, in quanto prodotto collettivo, la socializzazione dell’economia, promuovendo quindi la socialità generale, che si riflette come creatività nelle scienze umane e nelle attività artistiche. Questa socialità a sua volta si riverbera come sviluppo della comunicazione, quindi della scienza, alimentando e sostenendo uno sviluppo completo degli individui.

5. LA CONTRADDIZIONE

Ogni formazione sociale ha oggettivamente come fine primario la propria riproduzione, sia in termini materiali che spirituali, cioè ideologici, soprattutto per quanto concerne i rapporti sociali. Ciò che distingue le società del passato dal capitalismo integrato è che in generale ciò era finora avvenuto attraverso processi oggettivi, in gran parte inconsapevoli, cioè processi naturali o di cui la società aveva una percezione ideologica, vale a dire una falsa coscienza, di tipo religioso. Con l’avvento del capitalismo questa riproduzione del sociale diviene rapidamente un processo interamente sociale, cioè indipendente dalla natura, quindi anche consapevole. Ma il fatto più significativo è che in passato nelle società agricole tale riproduzione veniva realizzata compiutamente, cioè raggiungendo il suo scopo, come testimonia la grande stabilità di tali società, dove le rivoluzioni sfociavano sempre in un ripristino del medesima forma sociale, ricostituendo sempre un rapporto di aristocrazia e servitù, suggellato dall’invasione di nuovi conquistatori, o da un cambio di dinastia, o da una cancellazione dei debiti, o da una distribuzione di terre. Mentre, sotto il capitalismo, vale a dire in una società non più agricola, l’instabilità della forma sociale diviene una costante, vale a dire la riproduzione ha luogo in modo da minare continuamente le basi della società stessa, cioè si realizza in modo contradditorio. Ciò accade in particolare per le classi e il loro rapporto, in quanto il capitale deve riprodurre il proletariato come forza lavoro disponibile e al contempo capitalisticamente produttiva, cioè intende socializzare il lavoro ponendo il proletariato come produttore collettivo e dotare tale produttore di una coscienza reificata. Tale fine non può essere raggiunto che in modo contradditorio, in quanto il primo obbiettivo è funzionale alla produttività del processo di lavoro inteso come processo produttivo, il secondo al profitto dove il processo è considerato dal punto di vista della valorizzazione. Tale incompatibilità è generata da quella che è la contraddizione fondamentale del capitalismo, quella tra carattere sociale della produzione e quello privato della circolazione in quanto appropriazione, di per sé ineliminabile, soprattutto quando il ciclo capitalistico diviene strettamente integrato.

In ogni società per una classe l’aspirazione all’egemonia significa essere maggiormente esposti all’alienazione. Ciò si verifica non solo quando una classe sostituisce un’altra nella posizione di classe dominante, ma anche quando una frazione ne sostituisce un’altra all’interno di una medesima classe, come figura più rappresentativa. Nel capitale l’egemonia deriva dall’avere una posizione centrale nel ciclo capitalistico, quindi significa percepire più profondamente il contrasto di interessi che oppone proletariato e borghesia, che si esprime nella contraddizione fondamentale. Ciò è quanto accade anche quando due figure del proletariato succedono l’una all’altra come figure egemoniche, e la successiva assorbe in sé quella precedente, in un superamento che coincide con lo sviluppo dell’alienazione. Così era accaduto quando l’operaio di mestiere aveva sostituito l’artigiano nella prima fase dello sviluppo del dominio reale, poi come l’operaio di linea, insieme alla burocrazia di fabbrica, sostituisce quello di mestiere nella seconda fase. Così, nella crisi che chiude il periodo precedente e apre il successivo, il lavoratore dei servizi al consumo si pone come egemonico rispetto a quello di fabbrica (1).
Ciascuna figura percepisce la contraddizione fondamentale in un suo aspetto specifico (2). Inizialmente, sotto il dominio formale, la contraddizione appare sotto il profilo dell’alienazione elementare, cioè dell’espropriazione del prodotto. Nel trovarsi rinchiuso nella manifattura l’artigiano già indipendente sperimenta per la prima volta la contraddizione come salariato sottomesso alla tecnica, qui alla divisione del lavoro. Tale utilizzazione della tecnica ha luogo per un fine sia politico che economico, cioè garantire attraverso il controllo sia l’espropriazione che la produttività. Ma ciò comporta che gli venga richiesto di essere sempre più abile in un campo sempre più ristretto, cioè deve al contempo autolimitarsi e qualificarsi, per cui la produzione sociale lo espropria sempre più delle sue competenze, con una intensificazione dell’alienazione che ora comincia ad investire anche la sua personalità. Nella fase successiva, la prima del dominio reale, questo processo prosegue con l’introduzione del macchinismo, dove il controllo economico e politico del lavoro è affidato alla macchina, ad una tecnologia meccanica. Così si assiste all’espropriazione dell’artigiano già dequalificato anche di quella limitata competenza residuale, che viene conferita alla macchina, cui si trova asservito a vantaggio del proprietario, vivendo la contraddizione per cui uno strumento potenzialmente liberatorio del lavoro è usato contro di esso per dominarlo. Successivamente, nella seconda fase del dominio reale, con l’applicazione della scienza alla produzione, essendo questa possibile solo in situazioni semplici, diviene necessario spingere la scomposizione del processo produttivo fino all’estremo limite possibile. Di qui l’introduzione del taylorismo, una specifica tecnica organizzativa dove le operazioni sono suddivise fino alle loro componenti elementari per cui anche nei singoli gesti l’operaio viene assoggettato al comando capitalistico, cioè si trova ad agire come una macchina. Complessivamente da una parte il proletario viene sempre più ridotto ad oggetto, in una alienazione crescente attuata per mezzo di un processo di lavoro realmente sociale ma formalmente privatistico, espropriato non solo del prodotto ma anche della sua autonomia sul lavoro, al solo scopo di rendere possibile e giustificare giuridicamente l’espropriazione materiale e perpetuarla. Ma nello stesso tempo deve immedesimarsi in un processo di produzione sempre più complesso, cui non può estraniarsi. Cioè pur trovandosi immerso totalmente nell’alienazione gli viene imposto di agire come se non lo fosse, perché altrimenti l’intero processo sociale del lavoro non potrebbe funzionare. Quindi la contraddizione passa dalla forma dell’alienazione a quella dell’opposizione tra lavoro direttivo ed esecutivo.

Ma il processo deve ancora attraversare una ulteriore fase di sviluppo, la terza fase del dominio reale, in quanto nasce una figura di proletario radicalmente nuova. Ora infatti nei servizi al consumo muta ancora la forma della contraddizione fondamentale, che diviene quella tra individualismo e socializzazione. Come si è visto, il genere stesso del lavoro svolto dai servizi fa sì che la dimensione della socialità caratterizzi sempre più il lavoro, per cui il proletariato che lo svolge può essere definito come proletariato della socializzazione. Ma ciò determina un nuovo aspetto del conflitto di classe. Infatti il capitale pretende di far funzionare tali servizi secondo le proprie modalità, che però sono intimamente contradditorie, in quanto impone la cooperazione tra individui separati. Cioè da una parte esalta la socialità quale fonte inesauribile di forze produttive, dall’altra le sue esigenze di dominio gli impongono di inaridirla. Così il capitale si trova nella situazione contradditoria di dover produrre socialità mantenendo il presupposto della totale assenza di socialità, cioè l’individualismo proprietario, contraddizione che si aggiunge alle precedenti come nuova ed estrema forma della contraddizione fondamentale (3).
Tale contraddizione spinge gli individui nell’impossibilità di produrre una prestazione soddisfacente e di realizzarsi nella loro attività, in quanto da un lato sono indotti ad esprimere al grado più alto la loro socialità, dall’altro sono posti nell’impossibilità di farlo. Così la contraddizione fondamentale perviene alla sua forma più acuta e definitiva, dove l’opposizione tra socialità ed individualismo giunge ad essere vissuta fin nell’intimità dagli individui, portando alla loro coscienza la causa profonda delle contraddizioni della società capitalista. D’altra parte il principio che l’attività sociale sia finalizzata al consumo allude al principio fondamentale del comunismo, che il fine dell’uomo è l’uomo stesso, non le cose.
Ma tale contraddizione si esaspera ulteriormente quando il lavoro sociale assume il carattere di lavoro sociale creativo, carattere che si estende ormai ad ogni ambito produttivo. Infatti, in questo passaggio anche il proletariato di fabbrica si evolve e influenza il proletariato dei servizi sociali. La frazione burocratica, coinvolta in un processo di innovazione permanente che caratterizza il capitalismo maturo, viene trasformata in classe della creatività tecnico-scientifica. Ma anche le prestazioni richieste alla frazione della socializzazione chiamano in causa competenze e disposizioni che hanno il carattere della creatività, in quanto richiedono l’uso di tecniche specifiche, quelle comunicative. Ma la creatività scientifica, come la creatività sociale richiesta alla frazione della socializzazione, può realizzarsi solo come socialità dispiegata. Quindi entrambe le frazioni sono così unificate nel trovarsi in contraddizione con il contesto sociale in cui operano, costituendo così una figura del proletariato, la classe della creatività generale, che esaspera la contraddizione tra individualismo e socialità, facendola deflagrare.
La nuova classe della creatività generale è portatrice di profonde contraddizioni. Non può essere altrimenti, poiché costituisce il prodotto ultimo di una radicale divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. Ponendosi come figura del proletariato moderno deve fronteggiare nuove contraddizioni che conferiscono allo scontro di classe un superiore grado di conflittualità che si aggiunge agli antichi e li esaspera. Ma nonostante la sua modernità tale figura ha radici antiche, precisamente quanto la divisione del lavoro. Lavoro intellettuale e lavoro manuale hanno iniziato a separarsi con il sorgere della società di classe, potendo così svilupparsi più rapidamente, ma come attività separate in quanto materializzate in due classi contrapposte. Così il lavoro intellettuale ha potuto svilupparsi in forme superiori ma al prezzo di porsi come lavoro improduttivo, in quanto proprio per il suo carattere astratto, non immediatamente utile, poteva inizialmente svilupparsi solo come attività di classi proprietarie, quindi improduttive. Mentre il lavoro manuale per la sua immediata produttività poteva svilupparsi solo come attività di classi che sono necessariamente produttive perché espropriate, quindi senza riserve.
Alla borghesia compete il compito storico di portare alle estreme conseguenze questa separazione ed al tempo stesso porre le premesse per la sua abolizione. In questo movimento il lavoro intellettuale diviene lavoro scientifico e come tale da una parte libera l’attività intellettuale imprigionata nel lavoro manuale, mentre dall’altra ne dissolve la forma, come aveva dissolto le forme antiche del sapere: magiche, religiose, metafisiche. Infatti, poiché la scienza svela quale sia il processo naturale sottostante i metodi di lavoro tradizionali, di tipo empirico, il sapere scientifico può sostituire tali processi con altri, che nella nuova forma saranno processi meccanici, svolti da macchine. Con ciò, svelando la naturalità di tali processi, la scienza mette a nudo l’inessenzialità del semplice lavoro manuale e rende chiaro che quanto vi è di essenziale nei processi di lavoro è la parte giocata dal pensiero. Uscita dalla crisalide del lavoro manuale tradizionale l’attività umana può riconoscere la sua vera natura e pervenire alla sua forma adeguata, divenendo così attività mentale dispiegata, cioè creatività.
Ma la creatività non può essere tale se non come attività libera ed universale, cioè che possa scegliere il proprio campo d’azione e mutarlo senza limitazioni. Ma ciò è realmente possibile solo in una società superiore. Infatti, questo significa che il capitale dovrebbe porre il lavoro intellettuale come lavoro non finalizzato al profitto, cioè lavoro realmente libero, scelta per il capitale impossibile se non in pochi casi come orpello ideologico. Mentre è noto che la creatività, non prestandosi alla divisione del lavoro, non si può programmare. Questa contraddizione è un riflesso della contraddizione fondamentale della società capitalista, cioè la radicalizzazione, attraverso il lavoro salariato, della contraddizione tra produzione socializzata e appropriazione privatistica del prodotto. Quindi, per svolgersi in tale forma l’attività mentale deve costruirsi un contesto adeguato, cioè mezzi materiali e rapporti sociali coerenti con il proprio processo, poichè il lavoro creativo presuppone e al tempo stesso produce un individuo libero ed universale nei, e per, i suoi rapporti sociali. In primo luogo lavoro libero significa superamento della divisione del lavoro, ma il capitale, se oggettivamente opera in favore di questo superamento storico, quindi del ricongiungimento tra lavoro manuale e quello intellettuale, e l’esistenza del proletariato moderno testimonia di ciò, tuttavia non è in grado di realizzarlo, poiché li riunisce in quanto separati. Nella società del capitale, infatti, gli individui, come il loro lavoro, sono al tempo stesso socializzati e divisi, quindi cooperano nella separazione, cioè nell’opposizione fra loro, poiché il capitale pretende che il sociale sia costituito da individui isolati, insieme alla loro attività. L’esistenza delle due frazioni nel nuovo proletariato prova che l’unificazione del proletariato non può avvenire ad opera del capitale, ma contro di esso. In secondo luogo il capitale, che è intrinsecamente fondato sul lavoro mentale, non è in grado di creare l’ambiente sociale in cui questo possa realizzarsi, in quanto nel capitale la comunicazione ignora il suo oggetto reale, cioè la produzione materiale in quanto processo sociale, quindi come processo che esige di divenire soggettivo. Infatti, poiché il capitale tende a porre la cooperazione come rapporto tra individui isolati, in esso la socialità, quindi la comunicazione, non sono reali. Così anche i contenuti, il cui paradigma sono i contenuti scientifici, la cui funzione primaria non è il vero ma dare giustificazione apparentemente razionale all’esistente alienato, ciò che vanifica a priori il contenuto di verità di ogni comunicazione, cioè del suo oggetto, per cui diviene comunicazione vuota, sia di efficacia pratica che di contenuti sociali. In tal modo non solo è compromessa la produttività del lavoro, ma l’individuo perde il senso della sua attività complessiva, sviluppando così una comprensione distorta di quali siano le fondamenta dell’edificio sociale, cioè il contenuto della socialità nell’ambito dei rapporti materiali (4).
Di fatto nella socialità prodotta dalla comunicazione capitalista sfugge il fatto che l’intera esistenza materiale della società quindi degli individui, è socializzata. La comunicazione è tale da svolgersi tra individui isolati in modo da riprodurre il loro isolamento, perché non si riferisce mai alla realtà concreta della socialità, cioè la produzione socializzata. Essa è riferita a tale socializzazione solo attraverso lo scambio di merci, per cui la socialità appare come il risultato di tale scambio e non il contrario come è in realtà. La socialità appare come un rapporto tra cose non tra individui. Anzi sotto il capitale la socialità stessa della produzione di merci è mediata dal capitale, che scambiando merce nella forma denaro con forza lavoro e mezzi di produzione realizza la cooperazione sociale superando quella indiretta dei produttori indipendenti, ma lo fa mantenendo formalmente l’isolamento, cioè la concorrenza, degli individui. Ciò al solo scopo di mantenere il comando e lo sfruttamento sul lavoro asservito. Una socialità già operante, immediata e reale, è così posta artificiosamente come socialità mediata cancellandola, cioè come isolamento ed opposizione tra individui separati, che negano come illusorio il loro rapporto reale. Ciò nel consumo come nella produzione.
Ma la comunicazione senza rapporto sociale è una contraddizione in termini e come tale vissuta dagli individui, da un lato spinti a realizzare attraverso la comunicazione reti di rapporti liberi e generalizzati, mentre dall’altra vengono loro negate le condizioni per una reale esistenza di tali rapporti. Tale contraddizione mina alla base una società dove la produzione di informazione è divenuta egemone, mentre la socialità senza rapporto del capitale tende a fuoruscire da tale limite e porsi come superamento di tale falsa socialità. (5)
Tutte le precedenti contraddizioni sono ancora una volta forme secondarie della contraddizione specificamente capitalista tra cooperazione nella produzione e individualismo mercantile nella circolazione Ma è proprio nella classe della creatività che questa raggiunge il culmine. Infatti la produzione di informazione, cioè il lavoro intellettuale, richiede per raggiungere risultati elevati - anzi, solo per poter sussistere - del massimo grado di scambio gratuito di informazioni, perché solo nel dialogo, nella discussione e nella critica una impresa intellettuale può essere portata a compimento. Ciò richiede il massimo grado di socialità, cioè una socialità evoluta in cui il rapporto interpersonale e sociale non sia finalizzato ad altro che alle persone, le quali in esso si scambiano non solo informazioni ma la loro intera personalità.

(1) Naturalmente ciò comporta anche un mutamento del capitale in una forma corrispondente, quindi il passaggio dal capitalismo liberista a quello monopolista, e da questo a quello di stato, cui sono correlate altrettante figure della borghesia.
(2) In realtà la contraddizione fondamentale è presente in tutte le società di classe, in quanto contraddizione tra struttura sociale antagonista e divisione del lavoro.
(3) Qui il capitale tenta di applicare le tecniche già sperimentate nella produzione. divisione del lavoro, procedure formali, psicologia sociale, tecniche comunicative
(4) Il risultato è un tipo di produttore altamente qualificato ma non libero perché assolutamente acritico. Cioè, in sostanza, il sistema di riproduzione della forza lavoro produce il proletariato come classe dell’informazione, non come classe della comunicazione, pur essendo il dominio reale compiuto essenzialmente società della comunicazione dispiegata. Ciò riproduce ancora una volta al livello del nuovo proletariato la contraddizione del capitale che sotto il dominio formale rimaneva occultata: il fatto che il proletariato classico venisse riprodotto come forza lavoro, cioè come produttori isolati, non come produttori associati, pur necessitando della loro cooperazione collettiva. Anzi, a quell’epoca il proletariato si riproduceva come comunità autonoma, in opposizione al capitale, per il quale il problema era quello di frantumarla in forza lavoro disponibile. Ma questa è una contraddizione generale del capitale, che si ripresenta in forme sempre nuove in quanto conseguenza delle carattere specificamente capitalistico del rapporto di produzione.
(5) Ma al contempo tale socialità del capitale fa sì che i rapporti di potere nella società, che consentono alle classi improduttive di impadronirsi di una quota del prodotto, non vengano percepiti come tali. E’ sulla base di tale fatto oggettivo, su tale terreno già predisposto, che può operare la produzione di consenso. Pertanto le conseguenze ultime del taylorismo sembrano essere la soppressione della socialità tradizionale e dei suoi limiti, sostituendo ad essa la produzione di una nuova socialità ma ancora in forma alienata.

6. IL CONSUMO COME LUOGO DEL SUPERAMENTO

Per socialità si intende il rapporto che intercorre tra membri o gruppi di una collettività per cui essi sono in grado di relazionarsi tra loro in base a schemi comportamentali condivisi. Tale socialità si manifesta nel consenso reciproco tributato all’individuo o al gruppo dalla società e viceversa, in rapporto al loro agire e reagire, quindi nel grado di soddisfazione sperimentato in ciò. Il consenso è a sua volta riferito ai valori sociali correnti, quindi condivisi (1), nella società, cioè è relativo ai fini e ai modi dell’azione sociale. I modi sono le forme (mezzi materiali, condizionamenti normativi) in cui sono realizzati i fini, quindi sono essi stessi fini intermedi. Poiché i modi devono a loro volta essere prodotti in quanto fini intermedi, i modi fondamentali sono le forme di comunicazione (capacità di far convergere il consenso su di un fine comune e soprattutto su di una strategia adeguata a tale fine), che sono in realtà anche i fini ultimi, cioè la socialità in quanto fine a se stessa.
Molte sono le attività sociali. La cooperazione in quanto lavoro sociale, attività essenziale poichè da essa dipende l’esistenza stessa della collettività, e la giustifica, è l’attività sociale per eccellenza. Essa si esplica dunque nella produzione, dove i fini sono i prodotti (fini ultimi) e i modi i mezzi di produzione (fini intermedi), cioè tecniche di produzione e di comunicazione, quindi di organizzazione. Nella cooperazione la realizzazione del fine testimonia della capacità tecnica, i modi della capacità e del bisogno di socializzazione degli attori. Il consenso viene ottenuto sia per le capacità tecniche (abilità e conoscenze) che nel modo in cui si entra in relazione con gli altri soggetti cooperanti, individui o gruppi. Accanto alla cooperazione esistono infinite altre le attività sociali che si esplicano nel consumo, afferenti alla religione, lo sport, il viaggio, la festa, la cultura. Tale intreccio di relazioni tra individui e gruppi sociali è la sorgente delle forze produttive sociali in generale e soprattutto di quelle nuove, in quanto è tale attività che produce individui determinati appartenenti a una società storicamente determinata (2). In una società organica questa produzione ha luogo in ogni sfera dell’attività sociale complessiva, che costituisce un tutto unitario. In una società scissa, in una società di classe, questa produzione ha luogo prevalentemente nella sfera del consumo, cioè a livello della sovrastruttura. Non più nella sfera della produzione stricto sensu, se non come iterazione passiva, poiché la produzione dell’individuo in quanto tale costituisce una attività libera ed universale all’interno di un quadro normativo liberamente riconosciuto (3), mentre nella sfera della produzione materiale la società di classe si presenta frantumata negli interessi particolari contrapposti, quindi essenzialmente repressiva e conservatrice (4). Invece, a livello sovrastrutturale, cioè nel consumo, anche nella società di classe continua ad esistere parzialmente un contesto di attività sociali condivise, che emerge nello sfondo, sebbene assuma da una parte la forma del pensiero della classe dominante, e dall’altra quella di una nostalgia per il passato per le classi oppresse (5). Esso è la religione nella società feudale, l’ideologia in generale nella società capitalista, dove troviamo sia il liberismo borghese che il corporativismo dei lavoratori. Ma si tratta comunque di un pensiero del dominio, che assume il rango di pensiero collettivo abusivamente, in quanto della collettività nasconde e rivela la scissione latente.
Nelle società statiche del passato questa separazione tra produzione materiale e produzione degli individui determinava nella prima rivolte senza superamento e conservazione o reazione nella seconda. Nel capitalismo, società frantumata e instabile che deve innovarsi continuamente per poter sopravvivere, questa contraddizione tra dominio e sviluppo qualitativo diviene una contraddizione permanente. Infatti, l’ideologia borghese è quella dell’individualismo, cioè la svalutazione radicale della socialità, la sua riduzione ad un minimo, mentre il proletariato possiede solo residui ideologici della socialità delle anteriori società organiche. Quando il capitale impadronendosi della circolazione entra nella sfera del consumo, le due precedenti modalità di rapporto, conflittuale senza superamento e comunitaria ma mitologica, vanno in crisi. La lotta di classe entra anche in tale ambito, in quanto nella societàŸ borghese manca il concetto di un contesto sociale condiviso, se non quello che preserva l’individuo, quindi l’antico e falso idillio della comunità organica deve cadere. (6) Quindi viene meno l’ambito del consumo in quanto contesto sovrastrutturale che è l’unica vera sorgente da cui sorgono le forze produttive di una società. Ciò comporta che il capitale debba organizzare il consumo così come ha organizzato la produzione: nella forma della divisione del lavoro, del salariato e della burocratizzazione (7).

Come si è visto al modo di produzione capitalistico è necessario sia il lavoro libero che una socialità non vincolata, ed opera per produrli, ma nello stesso tempo tali forme della produzione si oppongono al fine per cui esse sono prodotte, il profitto, che necessita di un sistema di relazioni dispotico. Stretto in tale contraddizione il capitale produce tali forme ponendo loro dei limiti, contro i quali il lavoro deve scontrarsi per superarle.
Ma se il terreno decisivo dello scontro rimane il terreno della produzione, le forme del superamento possono nascere essenzialmente nella sfera del consumo. Ciò accade in primo luogo, come si è detto, per ragioni storiche generali in quanto nella produzione viene bensì messa in crisi la figura del lavoratore salariato ma non superata, perché qui il dominio è più forte, sia come coercizione che come identificazione del lavoro nel suo ruolo di salariato. Inoltre, nel caso specifico del capitalismo perché qui la mistificazione che opera nella produzione nasce nella sfera della circolazione. Quindi l’alternativa può sorgere solo nel consumo dove il proletariato è formalmente libero. Infatti, sotto il capitale il proletario è al di fuori del lavoro un cittadino al pari del borghese, possiede i suoi stessi diritti, cui si sono aggiunti recentemente quelli del lavoratore. Per cui nel consumo il proletario può immaginarsi altro da ciò che è, può pensare una società superiore, e pertanto qui può delinearsi una nuova figura sociale, l’individuo immediatamente sociale, i cui bisogni sorgono dal consumo e qui si manifestano, ma che per realizzarsi compiutamente devono ricongiungersi con le contraddizioni della produzione e risolverle. In mancanza di ciò, poiché il capitale può costruire una comunicazione formalizzata, puramente tecnica e tale da escludere gli individui e i loro rapporti con il reale, cioè una comunicazione alienata il cui prototipo è il discorso scientifico specialistico e falsamente oggettivo, la contraddizione interna alla produzione può reggere a lungo senza esplodere. Così la sua risoluzione viene affidata dalla teoria, secondo gli schemi classici, allo sviluppo delle forze produttive, cioè in forma passiva, oppure può anche non esplodere mai.
Sebbene il capitale non sia in grado di creare un rapporto sociale non contradditorio, esso deve abolire tutti i rapporti della società naturale che ancora sopravvivono nella sfera del consumo. L’organizzazione del consumo in forma adeguata al capitale determina la fine dei rapporti tradizionali nella sfera privata, creando così in tale ambito uno spazio sociale in parte libero, non ancora occupato dal capitale. In questo spazio temporaneamente aperto gli individui, pur vivendo in un contesto che li determina essenzialmente, possono in una certa misura creare i propri rapporti. Ma ciò che in questo spazio sociale, solo in parte controllato, diviene possibile è una scelta fra le diverse opzioni che il contesto offre, cioè si può utilizzare a proprio vantaggio la realtà contradditoria che circonda tali situazioni parzialmente libere. Tale contraddizione, altra derivazione della fondamentale, è quella tra aspirazione a uno sviluppo generalmente umano nel consumo e la realtà di un dominio dell’uomo sull’uomo nella produzione, tra emancipazione dalla società naturale e sottomissione al dominio della società di classe ed ai suoi vincoli che sotto il capitale divengono sempre più inessenziali. In tale momento di allentamento del controllo sociale gli individui sono spinti a creare fuori della produzione una socialità nuova, che tende a fuoruscire dal rapporto sociale capitalistico. Cioè di un rapporto tra gli individui mediato da merci, dove il rapporto fra essi come individui isolati appare come rapporto fra merci. Anche qui il disagio si manifesta come contraddizione, quella tra abbondanza quantitativa delle merci e povertà qualitativa del rapporto tra gli individui (8), cioè della loro socialità, che è un riflesso di quella esistente nella produzione, che si traducono infine nella povertà qualitativa delle merci, nonostante la produttività del lavoro sociale, merci la cui miserabilità non può essere scissa da quella dei rapporti che esse mediano. Tale feticismo delle merci appare infine come contraddizione tra una società che ha oltrepassato la soglia dell’abbondanza e che al tempo stesso impone una vita che conserva i tratti della sopravvivenza. Cioè materialmente fondata sul consumo quantitativo imposto di merci povere, cioè sul consumismo, e sul lavoro coatto, cioè sul produttivismo. E relazionalmente fondata sempre sul principio dell’ homo homini lupusŸ, ideologicamente posto come principio positivo denominandolo concorrenzaŸ. Tale contraddizione è difficilmente dominabile dal capitale perché si sviluppa nel consumo, dove il dominio del capitale è solo indiretto, cioè dominio delle coscienze.
Certo sotto il capitale il momento del consumo è formalmente libero in quanto il dominio del capitale si estende in linea di principio solo sulla forza lavoro, non sugli individui. Questo è ciò che determina la sopravvivenza fuori della produzione di cospicui residui dei vecchi rapporti. Ma con l’avvento del taylorismo il capitale si trova nella necessità, e in possesso dei mezzi necessari, di dominare gli individui anche nella sfera del consumo. Ma nello stesso tempo lo spazio del consumo con la sua nuova strutturazione capitalista diviene ciò che deve essere nel capitale, uno spazio di autonomia per il proletariato, che è pure una necessità per il capitale stesso, in quanto interessato ad uno sviluppo qualitativo della forza lavoro.
E’ dunque nel momento del consumo, non più dominato completamente dal capitale e al tempo stesso non più regolato dalle norme tradizionali, che si costituisce un ambito dove può apparire un rapporto immediatamente sociale e la coscienza di tale necessità, cioè un rapporto dove lo scambio è subordinato al rapporto sociale. Ciò risulta parimenti più evidente dove la divisione del lavoro, e quindi il livello di socializzazione, è talmente profondo che il carattere contradditorio della mediazione capitalistica nella cooperazione impedisce alle forze sociali del lavoro di esprimere tutte le loro potenzialità, cioè nella produzione. Con il taylorismo tale contraddizione diviene dirompente, poiché le restrizioni imposte alle attività degli individui costituisce un impedimento radicale alla realizzazione degli individui stessi.
Tuttavia, posta in questi termini la contraddizione resterebbe limitata alla soggettività, rimanderebbe ad un moto interiore, ad un èlan vital metafisico. In realtà la contraddizione sussiste in quanto accanto al precedente si manifesta anche il processo inverso. Infatti, una tale contraddizione è insostenibile anche per il capitale stesso in quanto il suo modo di produzione sotto il dominio reale appare assolutamente fondato sull’attività mentale creativa, cioè sviluppata, quindi impossibile nella forma limitata in cui appariva nella produzione artigianale, cioè come parte di una attività complessiva, manuale ed intellettuale insieme. Ma nemmeno può esistere nella forma contradditoria in cui è costretta nel lavoro salariato dove l’individuo non è libero se non formalmente, dove non vi è rapporto sociale libero ma determinato e conflittuale, dove quindi è costretto ad una attività limitata e iterativa in un ambito di comunicazione assente. Il capitale, stretto tra le esigenze contradditorie del dominio e del profitto, si trova infine obbligato a sollecitare comportamenti incompatibili con la sua conservazione, promuovendo negli individui il bisogno di una socialità sviluppata. Per cui sorge quella che costituisce la contraddizione specifica del dominio reale maturo, quella tra attività mentale dispiegata e contesto sociale ristretto, contraddizione che si estende dalla produzione a tutta la società, seguendo lo sviluppo del capitale che allarga il suo dominio alla sfera del consumo.
In questa unificazione contradditoria del ciclo capitalistico abbiamo di conseguenza due movimenti sociali complementari. Da una parte il proletariato tenta di portare l’autonomia di cui dispone nel consumo verso la sfera della produzione. Dall’altra quando il capitale partendo dalla produzione si impadronisce del tempo del consumo, inizia quella fase del dominio reale nella quale la separazione tra tempo di lavoro e tempo di consumo scompare e tutto il tempo diviene tempo sociale al servizio del capitale. Quindi anche il rapporto di produzione non domina più solo il tempo di lavoro ma anche quello di consumo e non solo determina ma si identifica con il rapporto sociale in generale (8). Si ha così una unificazione tra struttura e sovrastruttura, quindi tra produzione materiale e produzione di coscienza. Il risultato consiste in una omogeneizzazione della società al livello della struttura, (9) per cui l’intera società appare come un aggregato di scambisti privati che si rapportano ad ogni livello attraverso un mercato in cui tutto deve transitare nella forma di merce.
Quindi, il movimento del capitale è quello per cui la contraddizione tra creatività e rapporto sociale nasce nella produzione, trova nella sfera del consumo la cassa di risonanza che l’amplifica e ritorna quindi alla produzione. Percorso questo che inizialmente segue lo sviluppo del dominio reale, che prima si appropria della produzione poi del consumo determinando la crisi per ritornare poi alla produzione, riunificando il tutto nel ciclo del capitale.
Dal punto di vista del proletariato la contraddizione, se oggettivamente nasce nella produzione, diviene però soggettiva nel consumo dove il lavoro si oppone coscientemente - e qui dispone della forza necessaria - alla riduzione dell’intero metabolismo sociale a produzione di capitale. Qui il movimento del proletariato può dare alla sua opposizione una forma concreta e una formulazione generale, di qui può abbracciare la produzione concretizzandosi ulteriormente, da una parte investendo nuovamente l’aspetto lavorativo della contraddizione e dall’altra mantenendo ferma la critica del consumo, giungendo così complessivamente ad una critica unitaria, ad una alternativa che allude al superamento del capitalismo stesso.
Infatti questo è il percorso seguito da una delle frazioni più avanzate del movimento del consumo, il movimento studentesco degli anni 70, nel quale si possono distinguere tre fasi. La contestazione globale, che a partire dall’università intendeva porre in discussione l’intera società. La calata nelle fabbriche in cui si tentava una saldatura con i problemi degli operai e degli impiegati, ma che investì anche il terziario: banche assicurazioni, supermercati, etc. Infine il ritorno alla vita quotidiana con la cultura alternativa, che si poneva come alternativa al capitale sul piano della vita quotidiana, cioè nella sfera del consumo, fase in cui vengono inclusi non solo studenti e giovani operai ma anche individui declassati di altra collocazione sociale: giovani benestanti, intellettuali, marginali, etc. Qui si rende evidente come il punto di forza del proletariato non è la produzione, non è più il lavoro ma è diventato il consumo. Dal movimento della cultura alternativa sono poi scaturiti tutti i movimenti moderni: i centri sociali, i no global, l’ambientalismo, quelli per la liberazione sessuale, e via via tutti i movimenti tematici e territoriali che disegnano il panorama odierno.
Quindi la nuova socialità, pertanto anche una nuova creatività, nascono nel consumo non solo perché muoiono quelle tradizionali ma anche in quanto vi è in esse una oggettività storica che diviene soggettività. Esse prendono una forma determinata da un lato perché nascono su di una base materiale determinata diversa da quella che sosteneva i rapporti precedenti, cioè l’agricoltura, poi la manifattura, poi la macchina a vapore. Dall’altro perché vi è una nuova classe che si fa portatrice di nuove esigenze, la classe della creatività. Il momento oggettivo è dato dal fatto che i rapporti nati con il taylorismo sono determinati dai nuovi mezzi di comunicazione e trasporto, telefono e automobile, ma soprattutto dalla disponibilità illimitata di informazioni tramite giornali, radio, televisione, cui si aggiunge recentemente Internet. Naturalmente tale ambiente materiale è predisposto dal capitale per i suoi scopi, certo per il profitto ma nella stessa misura per riprodurre la forza lavoro come individui isolati nel flusso di merci. Quindi la nuova socialità ha una doppia valenza determinata dall’uso che gli individui fanno del contesto materiale in cui sono collocati, uso che contrasta l’uso capitalistico. Ciò dipende dall’ambiguità stessa del capitale che si traduce in un rapporto contradditorio con gli individui dominati, per cui da una parte tende a razionalizzare e controllare ogni momento della vita degli individui, dall’altra, non potendo mai giungere a ciò, è costretto a sollecitare negli individui il pensiero e l’azione autonomi.
E’ nell’ambito di tale esigenza di un nuovo rapporto sociale, quale loro premessa necessaria, che nascono la critica del lavoro e della merce. Nascono cioè nell’ambito della creatività sociale, che costituisce al contempo carattere costitutivo potenziale della classe della creatività generale e nuova forza produttiva sociale, poiché essa è insieme creatività teorica, cioè tecnico-scientifica in quanto lavoro intellettuale dispiegato, e creatività pratica, cioè sociale, che sa creare intorno a sé un ambiente sociale in cui possa esprimersi. Infatti la creatività teorica deve espandersi in quella pratica in quanto necessita di essere comunicata e di compiersi in realizzazioni concrete e la creatività pratica realizzata è condizione per la produzione della creatività teorica, come sua base materiale.
La creatività generale, loro sintesi e superamento, non può che criticare il lavoro salariato, non solo in quanto lavoro asservito, che ha il proprio fine fuori di sé stesso, cioè un salario non solo sempre appena adeguato ma in sé umiliante come rapporto, ma oltre a ciò e più ancora nelle nuove condizioni, in quanto attività inessenziale, limitata e priva di contenuto, ripetitiva e ridotta ad automatismo. Cioè attività povera perché eterodiretta ed eterodiretta perché povera. Ma critica anche il lavoro come attività sociale complessiva, in quanto non finalizzata ai bisogni degli individui ma al profitto, cioè alla perpetuazione dell’esistente e ad una accumulazione non meno insensata che ingiustamente ripartita, quindi attività inessenziale come il lavoro individuale. Allo stesso modo, come creatività pratica non può che criticare la merce come realizzazione concreta non solo del consumo alienato ma soprattutto dell’assenza di rapporti immediatamente sociali. Così anche critica la povertà intrinseca delle merci stesse, non adeguate ai bisogni molteplici e differenziati caratteristici del nuovo proletariato, in particalare dei nuovi ceti della produzione indiretta.
Saranno queste le rivendicazioni qualitative che andranno molto oltre le tradizionali rivendicazioni quantitative del vecchio proletariato, che compariranno accanto a queste conferendo al movimento i connotati della rivoluzione moderna.

(1) Naturalmente non è secondario come esiste questa condivisioe, cioè se si tratta di valori tradizionali, imposti da una parte della società, o frutto di una volontà collettiva.
(2) Tale attività si svolgeva un tempo nella famiglia e in generale nei gruppi organici cui essa apparteneva. Ora l’intera società vi concorre in forma burocratica.
(3) cioè in condizioni di autonomia, che in senso etimologico (autos+ nomos) significa proprio questoŸdarsi le proprie leggiŸ.
(4) Sebbene i due aspetti dell’attività sociale non sono mai completamente scissi. Ad es. il lavoro salariato è sempre anche collaborazione con il capitale, benchè conflittuale, altrimenti la produzione capitalista non sarebbe possibile.
(5) In tempi di stabilità sociale.
(6) Del resto quale presupposto dello scambio di merci è necessaria l’assenza di socialità. A. Smith per poter assicurarsi il pranzoŸ ripone notoriamente la sua fiducia nella sete di guadagno dei bottegai piuttosto che nel loro altruismo. Noi ci rivolgiamo non alla loro umanità, ma al loro interesse, e non parliamo mai loro dei nostri bisogni, ma dei loro vantaggi. Nessuno salvo un mendicante, sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei cittadini.Ÿ(Ricerche, libro I, cap.II).
(7) La burocratizzazione si trova già come contraddizione nei servizi alla produzione, dove è ancora in primo piano, e quella sociale secondaria.
(8) Oppure, ciò che è più esatto, tutti i rapporti si modellano sul rapporto di produzione, che non appare più come semplice rapporto di proprietà ma si presenta in mille sfaccettature in quanto permeando ogni altro rapporto ne assume l’aspetto.

Torino, luglio 2008
Valerio Bertello.




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