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Commento a “ ‘Socialisme ou Barbarie’ e la natura sociale dell’URSS” di Jean Barrot (1972)

L’articolo, al di là del tema obsoleto, - il carattere del socialismo sovietico, -presenta tuttavia un interesse immediato di carattere più generale. Infatti la rilettura di quel testo costituisce una buona occasione per misurarsi con questioni per lo più date per scontate o peggio superate, mentre in realtà si tratta dei fondamenti di qualunque critica al capitale che intenda realmente essere tale.
La questione teorica centrale, attorno alla quale ruota tutto il discorso è quella del rapporto tra scambio e ripartizione. Sorvolando su alcune forzature che chiaramente riflettono il clima dell’epoca, come le evidenti incongruenze riguardo la differenza tra socialismo in quanto società di transizione e comunismo, B. mette in evidenza come C. prima dichiari che “le leggi della produzione capitalista si affermano come leggi costrittive attraverso il mercato, la concorrenza, la circolazione, insomma attraverso lo scambio.” (P. Chaulieu, I rapporti di produzione in Russia, Samonà e Savelli, 1971, p. 32), ma poi pare dimenticarsi di questa affermazione dichiarando che “ciò che fa dei capitalisti la classe dominante è il fatto che disponendo delle condizioni della produzione essi organizzano e gestiscono la produzione e appaiono come gli agenti […] della ripartizione.” (Ibidem, p. 55). Su questa base B. afferma che “Chaulieu menziona ancora la questione della vendita della forza lavoro (Ibidem, p. 59, 62) ma senza darle una importanza decisiva […]. Vi vede solo la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. […] Lo scambio e il valore sono completamente tralasciati. “ (p.3)
Pertanto il problema è posto nei termini seguenti: dove prende origine la coercizione che impone al lavoratore un rapporto di sfruttamento con il capitalista? Detto in altri termini, poiché lo scambio avviene normalmente tra equivalenti, come accade che nello scambio forza lavoro contro salario esso sia ineguale ? La causa deve essere esterna allo scambio stesso e in effetti si trova in un altro momento del ciclo capitalistico, nella distribuzione dei fattori della produzione, che palesa una seconda ineguaglianza la quale spiega la prima. Infatti è l’ineguaglianza di ricchezza che fa sì che i due contraenti del contratto di compravendita, il capitalista e il proletario, non siano su di un piede di parità, anche se appaiono sul mercato come due liberi produttori. Lo scambio, è vero, si presenta come operazione necessaria per entrambi, in quanto entrambi devono produrre, ma per i due contraenti la necessità non è uguale. Tale asimmetria si manifesta come esistenza di un elemento che ha un effetto decisivo sulle condizioni alle quali avviene la stipulazione del contratto, il tempo. Questo determina il momento dell’ “accordo”, che è sempre quello in cui uno dei due soggetti ha l’acqua alla gola. Ma tale momento viene stabilito dal capitalista, non dal salariato. Infatti condizione fondamentale per sottoscrivere un contratto vantaggioso è non essere stretto dalla necessità, non avere fretta di concludere, poter aspettare. Ma il salariato, non possedendo riserve, è sempre sotto l’assillo della necessità, mentre il capitalista sostanzialmente subisce solo il danno di dover mantenere inattivo il suo capitale, al limite intaccarlo o perderlo. Ma ben prima che ciò accada il salariato si sarà arreso.
Quindi l’esito dello scambio è già determinato a priori. Di qui la tirannia del mercato, il suo potere costrittivo, ma tale coercizione ha origine altrove nella distribuzione dei mezzi di produzione. Poiché il salario rappresenta il reddito del lavoratore, cioè la quota del prodotto totale spettantegli, “La distribuzione dei prodotti è chiaramente solo un risultato di questa distribuzione [dei mezzi di produzione] che è compresa nel processo di distribuzione stesso e che determina la struttura della produzione.” (Marx, Introduzione del ‘57, Editori Riuniti, 1974, p. 184).
Questo “reddito”, che in realtà è la reintegrazione della forza lavoro immessa nel processo di produzione, è il prezzo al quale verrà alienata la forza lavoro dal lavoratore. In tali condizioni di svantaggio il prezzo sarà il minimo sostenibile per il lavoratore, cioè la forza lavoro verrà scambiata con il minimo necessario per il proprio sostentamento. Infatti esso, dal lato del capitalista, rappresenta il costo di riproduzione della forza lavoro, analogo all’ammortamento dei macchinari e alla reintegrazione delle scorte. Prezzo minimo che però è stabilito socialmente in quanto al di sotto di esso diviene reale il pericolo sempre incombente di una rivolta sociale. Minimo che non ha nessun rapporto con il prodotto complessivo ricavato mettendo all’opera la forza lavoro acquistata, che invece tende ad un massimo, superiore al prezzo di acquisto.
Questa è la realtà mascherata dallo scambio, in particolare quello tra fattori della produzione, che pertanto è una mistificazione, una illusione ideologica utile solo ad agevolare la realizzazione e la riproduzione del rapporto di produzione capitalistico. Ma la nebbia ideologica che avvolge lo scambio non finisce qui in quanto esso appare essenzialmente come rapporto contrattuale tra proprietari di merci, cioè come rapporto giuridico. Ma come tale esso è reale, cioè ha forza di legge, solo in quanto dietro questo rapporto compare lo stato e il suo monopolio della forza. Ma lo stato è sempre strumento di classe nelle mani della classe dominante, cioè dei capitalisti. Perciò qui il cerchio si chiude e tutto diviene chiaro: le leggi economiche del modo di produzione capitalista, - scambio, legge del valore, ripartizione, - sono fondate sulla proprietà, questa sul diritto e quest’ultimo sullo stato classista.
Quindi l’ideologia dello scambio occulta la realtà del rapporto di classe. Ma vi è un altro aspetto del rapporto di produzione che viene mascherato dal rapporto mercantile, che occulta una contraddizione che allude alla possibilità di un superamento storico del capitalismo. Infatti lo scambio, così come il valore, rappresentano entrambi le relazioni sociali degli individui come rapporti tra soggetti isolati, quindi indipendenti, che hanno tra loro unicamente rapporti di scambio tra equivalenti. Ma la realtà effettiva è un’altra, poiché in essa si vedono individui reciprocamente dipendenti sotto il vincolo della divisione cooperativa del lavoro, sviluppata dal capitale a tal punto da rendere ogni individuo dipendente da tutti gli altri. La legge del valore regola questi rapporti mascherandone la sostanza, in forma illusoria, trasformandoli in rapporti dominati dal feticismo della merce, distorsione della realtà che non è altro che la negazione ideologica di questa universale dipendenza.
E’ necessario ancora entrare nel dettaglio della relazione della distribuzione con la proprietà e lo stato. Appare evidente che in tempi normali la costrizione violenta è sotto il capitale un fatto del tutto eccezionale. Infatti essa si rivela essere strumento di dominio puramente accessorio perché la distribuzione asimmetrica dei fattori della produzione è una realtà che si riproduce automaticamente nel corso del ciclo economico del capitale. Anzi tale distribuzione tende a divenire sempre più squilibrata, ciò a causa del diritto riconosciuto al capitale di appropriarsi non solo tutto il plusprodotto, ma il prodotto nella sua totalità. Ciò che gli permette di dominare non solo il momento della produzione ma anche quello della distribuzione. C. sottolinea questo punto importante affermando che: “Questi rapporti di produzione poggiano sulla ripartizione iniziale delle condizioni della produzione […] costantemente riprodotta, estesa e sviluppata dai rapporti di produzione” (I rapporti, op. cit., p. 56). Ciò significa che la condizione sociale del proletariato ha una origine storica, che è la storia della accumulazione originaria e quindi terminerà storicamente con l’espropriazione di questo valore accumulato, misura necessaria (tuttavia, come la storia ci ha insegnato, non sufficiente) per colpire alla radice il potere del capitale. Questa è la sostanza della teoria del valore, ridotta al suo nucleo reale, teoria che risolve il problema enunciato da Rousseau, ripreso da Marx e lasciato in sospeso (Cfr. Manoscritti del ’44, Il lavoro estraniato), “L’uomo è nato libero e dovunque è in catene […] come può essere avvenuto un simile rivolgimento ?” (Contratto sociale, I, I), che è nient’altro che la questione della coercizione.
Rimane ancora da spiegare perché B. consideri necessario privilegiare lo scambio e il valore come fondamento del modo di produzione capitalistico. Ciò che lo spinge in questa direzione traspare nella conclusione dell’articolo: “La conseguenza logica del modo di procedere di C. consiste nel ricercare i rapporti di produzione dentro l’impresa” (p. 5). Certamente C. vuole trovare le contraddizioni del capitale dentro la produzione, e individua quella principale nel rapporto tra direzione capitalistica ed esecutori salariati. Ma è altrettanto chiaro che B. vuole ricercare l’origine dell’alienazione fuori dalla produzione, nella sfera della circolazione e del consumo, posizione tipica delle correnti radicali di quell’epoca. Infatti a ciò può ricondursi la teoria dell’Internazionale Situazionista, modello di quel pensiero, sebbene occorra notare come l’IS mantenne sempre il suo discorso saldamente ancorato al momento della produzione facendo costantemente riferimento alla teoria consiliare. Mentre il limite della teoria dell’IS è di aver limitato la critica della merce allo scambio finalizzato al consumo, trascurando quello che trasforma il capitale monetario in capitale produttivo.
Come origine di tale rovesciamento di quello che rappresenta il capisaldo della teoria classica, cioè del materialismo storico, B. presenta la tesi (il testo risale al 1972) secondo la quale “la sua [di S. ou B.] ideologia è superata dal movimento rivoluzionario […]. Viceversa è il capitalismo che tenta di riformarsi facendo partecipare i lavoratori alla sua gestione” (p. 5). La prima affermazione rimane sostanzialmente vera. Le teorie operaiste si rivelarono troppo anguste per poter esprimere la ricchezza di contenuti emersi da quelle lotte. Ma il sorgere di tale tendenza è da attribuirsi (con il senno di poi) agli imperativi del momento, cioè quello di mobilitare tutte le forze in una congiuntura nella quale pareva che il rovesciamento del capitale fosse a portata di mano: “ancora uno sforzo, compagni !”. Ma anche al fatto che, avendo il movimento toccato i suoi limiti, si tentò di forzare la situazione colpendo il capitale dove sembrava più facile perché più debole, scambiando però per debolezza la sua indifferenza, che in realtà rasentava la complicità. Ma riguardo la seconda affermazione è altrettanto evidente che tali tendenze del capitale, ammesso che abbiano mai avuto una effettiva rilevanza, sono ben presto rientrate. E se hanno avuto una qualche importanza sono state conseguenza della crisi che allora attraversava il capitale a livello produttivo (fine del ciclo del fordismo), quindi risultato del venir meno del controllo sociale sul proletariato esercitato normalmente dal capitale, crisi iniziata nella fabbrica e poi estesasi a tutto il tessuto sociale, generando una corrispondente produzione teorica avente per oggetto il consumo. Beninteso tale espressione teorica, avendo una base materiale ben definita non era allora ideologica. Come “l’apparenza estetica delle […] robinsonate […] aveva un senso per gli uomini del XVIII secolo” (Marx, Introduzione, op. cit., p. 172), così anche la critica della vita quotidiana e dello spettacolo aveva un senso per la sinistra radicale del tempo, anche a prezzo di certe forzature, che chi ha vissuto quegli avvenimenti ha ben presenti (”la rivoluzione in una stanza”). L’errore se mai è riproporre tali contenuti fuori del loro tempo, senza averli almeno rielaborati. Altrimenti non si fa altro che alimentare i limiti del movimento attuale che ha abbandonato completamente alla politica istituzionale la sfera della produzione, disconoscendone il ruolo fondamentale, sebbene non esclusivo, nella dinamica del capitale, per concentrarsi unilateralmente su temi sovrastrutturali: l’ambientalismo nei suoi molteplici risvolti (grandi opere, nucleare, inceneritori, etc.), l’antirazzismo come aspetto fondamentale dei flussi migratori, femminismo, stili di vita e sullo sfondo un antifascismo antistorico. In questo il movimento attuale è il legittimo erede delle lotte degli anni ‘70, della loro radicalità pratica ma anche dei loro limiti teorici. Ciò che occorre è quindi almeno ristabilire un rapporto organico tra le due critiche, quella della produzione e quella del consumo.

Ottobre, 2010, Valerio Bertello