back
teoria
attualità
home
|
Caro Valerio,
ho finalmente trovato il tempo di leggere il tuo testo sull'alienazione. Non posso trattenermi dal dire che la tua lettura mi è parsa piuttosto “tradizionale” (il che non è un male in sé, per carità, però...), in ogni caso mi trovo in disaccordo con una buona parte delle tue considerazioni. Non ho tempo né modo (dato che non ho Word non posso fare copia e incolla dal tuo testo...) di attardarmi su ciascuno dei passaggi che mi paiono problematici, te ne segnalo giusto qualcuno:
1. in generale, la problematica del tuo testo mi pare decisamente “illuminista” e marcata dalla ricerca di un punto di vista esterno all'ideologia. Il problema, per conto mio, è appunto quello di problematizzare la posizione dell'osservatore rispetto al fenomeno osservato o descritto: se si afferma che l'essere determina la coscienza, bisogna arrivare ad affermare che anche la propria coscienza (in questo caso teorica) non è meno determinata dall'essere di quella di chiunque altro; insomma bisogna avere il coraggio di fondare la propria teoria del feticismo all'interno del feticismo stesso, e non all'esterno.
2. Nel tuo testo, i confini fra alienazione, feticismo e ideologia mi paiono labili, perfino indefiniti. Non nego che vi sia un rapporto fra i tre termini, ma credo sia importante darne una definizione ben precisa, altrimenti temo che si finisca per assimilarli come figure alterne di ciò che Kant definisce “eteronomia” (in opposizione ad “autonomia”). Così su due piedi, sarei tentato di porre i tre termini in progressione: 1) alienazione = forma specifica di un rapporto sociale antagonistico, nel quale uno dei due poli, producendo e riproducendo se stesso, produce e riproduce la propria negazione: «Il movimento che questi elementi devono percorrere : in primo luogo, l'unità immediata e mediata di entrambi.
Capitale e lavoro in un primo tempo sono uniti; poi sono separati, sì, ed estranei l'uno all'altro, ma si sostengono e si promuovono l'un con l'altro come condizioni positive.
Opposizione di entrambi: si escludono a vicenda, l'operaio conosce il capitalista come la negazione della propria esistenza, e viceversa. Ciascuno cerca di strappare all'altro la sua esistenza. Opposizione di ciascuno contro se stesso. Il capitale = lavoro accumulato = lavoro. [...] Collisione di opposizioni reciproche» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844). Feticismo = in virtù della propria struttura, suddetto rapporto sociale si manifesta necessariamente come un rapporto fra cose. Ideologia = è il momento auto-riflessivo del rapporto sociale divenuto rapporto fra cose; ad. es. quando il capitale prende se stesso come oggetto di conoscenza. Ad occhio e croce, mi pare che lo schema abbia senso. Però il primo termine mi lascia perplesso: il concetto di alienazione presuppone sempre uno stadio anteriore del soggetto che si aliena, ciò che per il proletariato o per il rapporto sociale nel suo insieme non ha alcun senso.
3. La medesima problematica illuminista di cui dicevo porta a ipostatizzare i concetti di “razionalità” e “irrazionalità” in maniera normativa e quasi ontologica, come se la razionalità ed il suo contrario esistessero fuori dalla storia e fosse possibile definirle ad di fuori delle loro incarnazioni storico-sociali; ancora, la medesima problematica, sottotraccia, presuppone che il superamento rivoluzionario sia concepito come un ritorno in sé, uno svelamento, una coscienza di classe infine adeguata alla “vera realtà” reale, o infine la realizzazione di un grado superiore di razionalità... ma avere “coscienza” che la forma-salario occulta la divisione della giornata lavorativa tra lavoro necessario e pluslavoro, “sapere” che le forme empiriche di interesse, profitto e rendita non sono che forme trasformate del plusvalore estorto, avere “coscienza” che “dietro” ai prezzi c'è il valore o che il carattere di merce di un dato bene è una determinazione sociale, etc... queste sono tutte cose inerenti all'elaborazione teorica, ma che non cambiano assolutamente nulla nella quotidianità della riproduzione dei rapporti sociali capitalistici: finché i rapporti capitalistici si riproducono (bene o male), si riproducono anche le loro “apparenze” attraverso cui si mostrano nella realtà; se queste “apparenze” vengono meno, è semplicemente perché viene meno la realtà di cui sono l'apparenza socialmente necessaria (“a rovescio”, se ti pare). Per dirla in una battuta, nella rivoluzione non si scopre tanto la vera verità del capitalismo, quanto più la realtà possibile di un mondo e di una pratica differenti; non quindi ritorno in e su di sé del soggetto presupposto, ma totale estroversione.
4. Su Hegel: già ti anticipavo che sono, da qualche tempo, piuttosto favorevole a ridimensionare il preteso hegelismo di Marx. Detto questo, anche prendendo per buono questo presupposto, nella maniera in cui svolgi il ragionamento su ideologia e non-ideologia, alienazione e disalienazione, coscienza adeguata e coscienza mistificata, non sfuggi a quella che mi pare un'incoerenza. «L’essenza deve apparire. Il suo apparire è in essa il sopprimer sé stessa facendosi immediatezza […]. L’apparire è la determinazione, per mezzo di cui l’essenza non è essere, ma essenza; e l’apparire sviluppato è il fenomeno» (Hegel, Sistema della logica). Per Hegel, così come il buon universale è sintesi dell'universale e del particolare, allo stesso modo la vera essenza è sintesi di essenza e fenomeno e, proseguendo per analogia, di sostanza e forma, etc. Non si può dunque scartare la forma, il modo di apparizione per scovarvi dietro la realtà pura dell'essenza in sé stessa: l'essenza si manifesta come modo di apparizione, come forma, e paradossalmente proprio grazie e questa trasmutazione piuttosto che nonostante questa. Ora, ammettendo che l'influenza di Hegel su Marx sia così forte, potremmo allora proporre quest'analogia: che nello svolgimento dei III libri del Capitale, Marx passi gradualmente dall'esposizione dei rapporti essenziali che governano il modo di produzione capitalistico (la merce, l'estrazione del plusvalore, etc) alle forme di apparizione. Talora sembra essere proprio Marx a dircelo: «Nel I Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal mondo della circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del II Libro. Vi si mostrava, specialmente nella III sezione, che tratta del processo della circolazione quale mediazione del processo di riproduzione sociale, che il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità di dei processi di produzione e di circolazione. Scopo del presente Libro non può essere quello di esporre riflessioni generali su siffatta unità; si tratta piuttosto di scoprire ed esporre le forme concrete dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto. Nel loro movimento reale, i capitali assumono l’uno nei confronti dell’altro tali forme concrete, in rapporto alle quali l’aspetto del capitale nel processo immediato di produzione, così come il suo aspetto nel processo di circolazione, appaiono soltanto come momenti particolari. Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente volume, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione.» (Marx, Il Capitale, Libro III, cap.I).
Ora, se assumiamo – come viene affermato nell'Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica – che il metodo corretto è quello di procedere dall'astratto al concreto, dobbiamo nostro malgrado riconoscere che l'esposizione e la “messa in valore” dei soli rapporti essenziali rimane ancora astratta, e che per giungere al concreto bisogna passare per il loro modo di apparizione, poiché i rapporti essenziali non esistono se non attraverso quest'ultimo. Civettando ancora con Hegel, potremmo allora dire che per arrivare al concreto bisogna giungere al terzo momento, alla sintesi dell'astratto e del concreto. Ora, la critica dell'ideologia, nel senso abitualmente inteso, fa invece – ahi noi – l'esatto contrario: vuole scartare il modo di apparizione per toccare e soprattutto mostrare (più spesso propagandare...) il rapporto essenziale, e il risultato è di perdere per strada con il primo anche il secondo, perché è solo attraverso un'operazione deduttiva a partire dal modo di apparizione che è possibile giungere al rapporto essenziale (fermo restando che anche qualora ci si arrivi non si è allora che a metà strada, allo svolgimento del momento astratto):«L'accumulazione privata del capitale implica [...] rapporti di mercato competitivi che “trasformano” i valori in prezzi di produzione. Naturalmente, la “trasformazione” è solo un modo di dire che anche se nel processo di scambio tutto avviene in termini di prezzi, questi ultimi sono nondimeno determinati dai rapporti di valore di cui i produttori non sono consapevoli. Questa determinazione dei prezzi per mezzo del valore non si può stabilire empiricamente; si può solo dedurre dal fatto che tutte le merci sono prodotti del lavoro, di differenti quantità di lavoro; e della distribuzione necessariamente proporzionale di tutto il lavoro sociale. Non esiste un modo diretto per scoprire di una merce nel suo “valore”, o, con un procedimento opposto, per scoprirne il “valore” nel prezzo. Non esiste alcuna possibilità di osservare la trasformazione dei valori in prezzi; e il concetto di valore ha significato solo riguardo al capitale sociale complessivo.» (Paul Mattick, Marx e Keynes. I limiti dell'economia mista, De Donato, Bari 1962).
5. Un altra conseguenza della problematica di fondo che guida le tue riflessioni è l'accento posto sull'assenza di controllo cosciente e sul fatto che nel modo di produzione capitalistico la connessione fra produttori non è immediata ma si fa attraverso lo scambio. Non che tutto questo non sia vero... ma la sua centralità o meno dipende da dove si vuole andare a parare. E, se si vuole, è perfino in diretta continuità con Marx, soprattutto il Libro I del Capitale ma anche il III, cioè con l'idea che il socialismo (il piano) sarà il divenire cosciente di un movimento che nel modo di produzione capitalistico è cieco ed incosciente. Ora, il discorso a questo proposito sarebbe molto lungo, ma fondamentalmente credo che si debba fare una profonda critica storica di questa concezione marxiana che – detto en passant – non è così estranea a quel che si è visto nelle esperienze dei vari socialismi reali. Per andare al sodo, direi che Marx, per profonde ragioni storiche e politiche, non perviene a pensare realmente l'abolizione del valore e della sua sostanza: il lavoro astratto. La conseguenza è che alla fine, per quanto Marx (e i vari marxisti successivi) sostengano il primato della sfera della produzione rispetto a quella della circolazione, alla fine finiscono per sostenere che il valore si formi solo al momento dello scambio. Ma la produzione, nel modo di produzione capitalistico, è fin dall'inizio “formattata” in vista dello scambio (valore d'uso-per-altri, valore d'uso sociale, dice Marx nelle Glosse a Wagner) e lo scambio è effettuato in vista di una produzione ulteriore: le due sfere si implicano a vicenda. Quello che dici rispetto al rapporto fra operaio e macchina è giustissimo, salvo che la connessione fra sfera della produzione e sfera della circolazione non mi pare sia sufficientemente messa a tema o sottolineata. Forse sbaglio, ma mi pare che gli argomenti che esponi verso la fine del testo vanno ancora e sempre nel senso di concepire il superamento del modo di produzione capitalistico in termini di piano. A mio avviso, il piano è presupporre la massa delle operazioni di scambio come già avvenute a priori: un'abolizione del valore che è tutta formale. È anche ritornare ad un problema di distribuzione, perché – per quanto si possa ripetere che i rapporti di distribuzione discendano dai rapporti di produzione – la famosa “liberazione delle forze produttive” è, in fin dei conti, un'adeguazione della socializzazione della ricchezza (appropriazione privata) rispetto al medesimo processo di produzione.
Infine, per dirla con una battuta: ciò che sotto il capitalismo funziona globalmente in maniera incosciente (ad. es. l'equalizzazione di processi di lavoro di intensità, qualità, complessità differenti in un flusso omogeneo e misurabile: il lavoro astratto), non può che funzionare così o niente. Come immaginare o teorizzare altrimenti il passaggio dal capitalismo al comunismo? Se ne può discutere. Ma presuppone un accordo sull'inservibilità delle vecchie risposte.
6. Infine, quanto alla nozione di comunismo primitivo, penso sia da abbandonare, così come l'idea che la ragione della formazione delle classi sia l'apparizione del plusprodotto ed una sorta di alienazione originaria. Marx ed Engels lavorarono sulla base del materiale etnografico disponibile al loro tempo (Morgan e poco altro), oggi il materiale è molto più copioso e va in per la maggior parte in un senso completamente inverso. Non solo sarebbe ben difficile trovare traccia di una sola comunità umana arcaica totalmente priva di sovrapprodotto (quindi, a rigor di logica, in cui tutto il tempo di vita è tempo di lavoro necessario, dedicato alla sussistenza) ma un gran numero di ricerche (cfr. Sahlins, L'economia dell'età della pietra; Maurice Godelier, La moneta di sale), in una maniera o nell'altra, smentiscono profondamente questa idea e il suo corollario, ovvero che l'apparizione del surplus determini meccanicamente l'apparizione delle classi. Mi potresti rispondere che sono processi che si spalmano su migliaia di anni, ed è vero; ma credo che, in fin dei conti, questo tipo di spiegazione sia di tipo tecnico e non sociale: analogamente si potrebbe spiegare l'apparizione dello Stato a partire dall'aumento della popolazione, ma a rigor di logica non c'è nessuna ragione stringente per la quale, superata una certa soglia demografica, la convivenza umana debba necessariamente dotarsi di un'istituzione statuale; analogamente, il fatto che l'attività produttiva dia luogo ad un plusprodotto è una condizione necessaria, ma non una spiegazione per la formazione delle classi. Ritornando alle società definite da Marx ed Engels “comuniste primitive”, sulla base delle conoscenze odierne direi che siamo di fronte ad uno spettro amplissimo di situazioni sociali, sia quanto a eguaglianza economica (ma eguaglianza economica non vuol dire comunismo) sia quanto alla condizione delle donne, sia quanto alle modalità di produzione e riproduzione della vita materiale. Uno spettro talmente ampio e variegato che la definizione di “comunismo primitivo” si rivela essere semplicemente insensata... in nessun caso un qualche comunismo primitivo (immaginario o realmente esistito) potrà mai essere garanzia di quel comunismo a cui aspiriamo per l'avvenire.
Un saluto,
Robert x ILC
|