back

teoria
attualità
home



LA LEGGE DEL VALORE COME IDEOLOGIA (3.0)

LO SCAMBIO E IL VALORE

Lo scambio è una creazione sociale che stabilisce una procedura generale che rende possibile a qualsiasi individuo di appropriarsi un bene con il consenso del proprietario. In generale è costituita dall’atto di compravendita, atto complesso con il quale il bene viene scambiato con il suo prezzo. Il prezzo di una merce può essere definito come ciò di cui il compratore è disposto a privarsi per entrare in possesso di questa. Oppure ciò che il venditore ritiene accettabile come possesso sostitutivo di quello del quale accetta di privarsi. I due prezzi non sono necessariamente uguali e nemmeno confrontabili. Perché lo scambio possa aver luogo è necessaria preliminarmente una contrattazione, cioè una procedura atta a stabilire il rapporto tra i due prezzi. A tal fine si stabilisce di riferire i due prezzi ad una terza merce, l’equivalente generale, il cui prezzo della quantità unitaria è per definizione uguale a uno. Si tratta di una merce omogenea dotata di una proprietà quantificabile (peso, tempo, estensione, ecc.) alla quale possano riferirsi il prezzo del compratore e quello del venditore, che permette il loro confronto. In pratica entrambi i soggetti simulano uno scambio tra la propria merce e l’equivalente generale e confrontano i risultati, se sono uguali lo scambio è possibile. Quindi occorre in primo luogo stabilire l’equivalente generale qualitativamente. Ciò viene realizzato nella prima fase della contrattazione. Ma poiché la transazione può aver luogo solo se i due prezzi ora valutati in equivalente sono uguali, occorre una seconda contrattazione, nella quale viene effettuato il confronto tra i due prezzi. Ciò viene eseguito nella seconda fase in cui viene concordata l’uguaglianza. Questo prezzo a cui ha luogo lo scambio è indifferentemente un costo o un risarcimento e precisamente un costo di appropriazione, che si può considerare una misura dello stato di bisogno dei contraenti. Esso si distingue solo formalmente dal costo di produzione, altro modo di appropriazione di un bene. Anche in questo altro caso l’appropriazione implica una privazione da parte del possessore, di strumentazione e di lavoro, risorse il cui consumo è necessario per la produzione del bene e che vanno perduti nel corso del processo produttivo. Quindi il discorso vale per entrambe le procedure. In prima approssimazione, considerando trascurabile il contributo al valore derivante dalla produttività naturale, il valore è definito come il costo di produzione computato in termini di lavoro del produttore, cioè in termini di tempo di lavoro quale sua misura. Qui la funzione di equivalente generale è svolta dal lavoro. Ciò era implicito nelle fasi precapitalistiche dello sviluppo dell’economia. Con il capitalismo il fatto che il lavoro fosse la base universale per la produzione delle merci divenne evidente e poté essere assunto come equivalente generale negli scambi e nella produzione, sebbene mai applicato nella pratica essenzialmente per motivi politici. In precedenza il lavoro era unito ai mezzi di produzione (servitù della gleba) o considerato esso stesso uno strumento (schiavitù).

Una delle possibili applicazioni di questa analisi è l’economia classica. Dai classici - Marx incluso - la teoria del valore-lavoro viene piuttosto postulata che dimostrata. Che le merci vengano in generale scambiate al loro valore viene in sostanza dato per acquisito in base al fatto empirico che ciò che è all’origine della loro esistenza come merci è il lavoro e precisamente il lavoro socialmente necessario, che costituisce il loro valore. Ma ciò non implica affatto che le merci vengano scambiate al loro valore. Innanzitutto dagli economisti viene subito ammessa una eccezione, che però comprende il solo caso interessante, la società di classe, cioè quello nel quale i prezzi differiscono dai valori in quanto comprendono, oltre al lavoro necessario, il plusvalore. Infatti nel prezzo della merce è incluso non solo il costo del lavoro necessario ma anche quello che realizza il plusvalore, che appare come costo del capitale in tutte le sue forme, le principali essendo quella industriale o profitto e quella fondiaria. Per cui già Smith, (escludendo in prima approssimazione il capitale costante) definisce il prezzo come somma di redditi, cioè di profitto, rendita e salario. Infatti essendo il reddito l’altra faccia del costo di produzione, il salario rappresenta il costo del lavoro. Marx parte da tale definizione, la “formula trinitaria”, per dimostrare che il lavoro è l’unica fonte del valore, quindi del plusvalore, e che il salario non è un reddito, se per reddito si intende una partecipazione alla distribuzione del plusvalore. Anzi il lavoro come salario, cioè in quanto scambiato coattivamente con capitale, per quanto formalmente libero è parte del capitale e precisamente la parte variabile del capitale. In realtà, dove vige la divisione del lavoro il valore in quanto costo di produzione è fondamentalmente un rapporto sociale, e come tale è già determinato nei rapporti antagonistici tra le classi nella sfera della produzione, rapporti che definiscono i costi di produzione. Infatti le classi si scontrano su tale terreno come coalizioni monopoliste dei fattori di produzione ed in tali conflitti definiscono i costi di produzione, che quindi sono dati a priori. Solo successivamente nella sfera della circolazione tali costi vengono computati in termini solo apparentemente oggettivi, cioè di lavoro, denaro o anche di utilità marginale. Ma può essere utilizzato qualunque altro parametro, perché si tratta di una operazione ideologica, volta a giustificare a posteriori un dato di fatto. Cioè il fatto reale è il rapporto fra gli individui, che si riduce alla capacità di influire sulla volontà altrui. Lo scambio è solo uno dei modi in cui si realizza questo rapporto

SOCIETA’ MERCANTILI: L’ECONOMIA DI SCAMBIO

Il fatto che il valore delle merci sia determinato dai rapporti di produzione fra le classi e che questi determinino quindi i rapporti sociali in generale, permette in linea di principio di dedurre l’intera realtà sociale da un unico atto sociale: lo scambio. Infatti da esso è possibile dedurre tutte le categorie dell’economia e da queste tutti i rapporti sociali non economici, che dipendono da esse. Ma essendo lo scambio non un principio ma una categoria derivata, la teoria fondata solo su di essa rimane alla superficie dell’oggetto, cioè si presenta ancora come una ideologia in quanto può demistificare solo parzialmente, che è l’ideologia dominante in quanto pensiero della classe dominante. Infatti sviluppando ulteriormente il discorso è possibile individuare il fondamento dei rapporti di produzione e questo è dato dal livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Queste sono costituite dalle tecniche produttive elaborate dalla società, cioè materie prime e le loro proprietà unite alla loro comprensione e utilizzazione ad opera dell’intelligenza umana. Cioè si tratta di lavoro sociale, materiale ed intellettuale, oggettivato. Quindi l’analisi dello scambio si sviluppa in tre livelli: quello del valore, che corrisponde alla circolazione delle merci; quello della lotta di classe, che corrisponde alla divisione del lavoro; quello dei mezzi di produzione, dove la società e la natura si incontrano. Chiaramente il discorso sullo scambio e sul valore si colloca al primo livello, quello più superficiale. Per comprenderlo e completarlo occorre scendere al livello sottostante quello della divisione del lavoro, come terreno ad un tempo di scontro e di collaborazione tra le classi, a sua volta condizionato da un livello ancora più fondamentale della struttura materiale della società, quello delle forze produttive. L’analisi di questa struttura tripartita è il vero compito del lavoro teorico. Qui tuttavia ci proponiamo un compito ben più limitato per cui il carattere strutturale complessivo della società verrà presentato non attraverso una esposizione analitica ma sinteticamente come panorama d’insieme e comunque limitato ai livelli più superficiali.
Un primo risultato della critica della teoria del valore-lavoro è evidentemente il materialismo storico, la cui essenza è data dal principio della dipendenza della sovrastruttura dalla struttura economica della società. Infatti ampliando l’analisi dello scambio a tutta la società i tre livelli di analisi, - cioè il valore, la lotta di classe e le forze produttive, - divengono quelli in cui è strutturato il materialismo storico. Infatti dopo aver constatato al secondo livello il ruolo determinante svolto dalla lotta di classe, approfondendo ulteriormente il discorso sul valore-lavoro osserviamo che la lotta di classe, cioè il fattore soggettivo, non è l’unico fattore che influenza i prezzi. Essi sono anche determinati da un elemento oggettivo, cioè le forze produttive, che compaiono negli schemi di riproduzione nella forma di coefficienti tecnici. Questi rappresentano le quantità di fattori di produzione necessari per la produzione di una quantità determinata di una certa merce, i quali complessivamente costituiscono un fattore oggettivo che resiste allo scostamento dei prezzi dai livelli di equilibrio. Ma se i coefficienti, considerati staticamente, determinano univocamente i prezzi o più esattamente i loro rapporti, in quanto soluzione unica di un sistema di equazioni lineari; i prezzi a loro volta, in quanto sono anche risultato della lotta di classe, influenzano i costi dei vari fattori di produzione, cioè delle forze produttive, quindi i rapporti di potere fra le classi. Infatti la lotta di classe produce sempre ristrutturazioni dell’apparato produttivo, per adeguarsi ai costi, che hanno sempre carattere politico. Quindi in generale il valore è il risultato finale di una dialettica tra lotta di classe e sviluppo delle forze produttive, cioè appare determinato come punto di equilibrio instabile tra un fattore soggettivo, la lotta di classe e uno oggettivo, le forze produttive esistenti o potenziali. Ma la lotta di classe è conseguenza del rapporto di produzione e questo dalle forze produttive, per cui in definitiva il valore è determinato dallo sviluppo delle forze produttive, in accordo con il materialismo storico. In sintesi si può affermare che in generale i prezzi sono determinati dalla lotta di classe, i coefficienti tecnici dalle forze produttive disponibili. La loro influenza reciproca crea una situazione lontana da quella di equilibrio, per cui vi è almeno una classe che produce in perdita in favore di un’altra classe, cioè scambia il fattore da essa posseduto o prodotto al di sotto del suo valore, mentre almeno un’altra classe scambia il proprio al di sopra. Ciò significa che il venditore cede gratuitamente al compratore parte del suo lavoro, cioè lavora per lui gratuitamente Ciò può accadere quando i rapporti di forza tra le classi sono squilibrati. E’ quello che avviene nel capitalismo nello scambio tra forza lavoro e mezzi di sussistenza. In generale i rapporti di forza tra i vari gruppi sociali è rappresentata fedelmente dalla scala delle retribuzioni.

VALORE E PROPRIETA’

Quindi il valore sembra essere il risultato di una concatenazione di cause materiali. Ma il fenomeno è più complesso, perché entra in gioco con un ruolo fondamentale, come causa non materiale, l’ideologia. Infatti considerando la determinazione dei prezzi questa ha luogo in due momenti distinti: nel primo passaggio il prezzo è determinato non tanto dal lavoro ma dal rapporto di produzione tra le classi, che si presenta tuttavia non per quello che è, cioè un rapporto di dominio, ma ideologicamente come rapporto di proprietà. Sono questi rapporti a determinare la formazione del prezzo, che è tendenzialmente quello al quale il lavoro viene retribuito al livello della pura sussistenza socialmente definita, e quello della componente naturale, cioè le materie prime, determinato dal monopolio dei detentori dei fattori naturali, come anche quello che nasce dal monopolio dei fattori artificiali, quali macchine, edifici, ecc. Quindi i rapporti di proprietà non vanno considerati soltanto base del rapporto di scambio, che non deve essere visto riduttivamente come sotterfugio per lucrare nella transazione, per comprare il lavoro ad un prezzo inferiore al suo valore, ma come l’oggettivazione di un rapporto sociale asimmetrico di dominio, nel quale la volontà dello scambista più debole viene coartata. In breve, i prezzi sono definiti dalla lotta di classe, in quanto rapporto sociale di produzione antagonistico. Un fattore che si oppone a questa tendenza è costituito dalla competizione all’interno della classe, ma la sua influenza è limitata in quanto la comunanza di interessi in opposizione alla classe rivale deve alfine prevalere. Infatti all’interno di ogni classe si formano coalizioni che limitano la concorrenza interna ed esaltano quella esterna, conferendo alla classe il carattere di monopolista di determinati fattori di produzione, la sua arma fondamentale nella lotta di classe.
Nella determinazione del valore il secondo passaggio, cioè la seconda mediazione, è conseguenza del fatto che il rapporto di proprietà, come anche quello di scambio cui dà origine, è un rapporto giuridico, quindi ideologico in quanto presuppone che i soggetti agiscano in piena libertà di scelta, ciò che in una società di classe non è mai vero (Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, p.68). Quindi la proprietà deve essere a sua volta mediata da un altro rapporto materiale. Due le possibilità: il rapporto con le forze produttive, oppure la forza militare. Quest’ultima era l’elemento determinante nel passato, quando la sottomissione al volere della classe dominante era imposta esclusivamente con la forza. In tal caso, poiché il rapporto di produzione materiale è un rapporto immediatamente coercitivo, allora l’idea stessa di proprietà diviene superflua e il dispotismo non ha bisogno di mediazioni ideologiche. Diversamente vanno le cose sotto il capitale quando il rapporto tra le classi diviene prevalentemente economico, cioè quando la coercizione trova il suo fondamento nel modo stesso in cui le classi partecipano alla produzione. Allora la mediazione del rapporto di proprietà diviene essenziale, così come il rapporto di scambio su di esso fondato, necessario per mascherare la reale natura dispotica del rapporto di produzione in modo che appaia libero. Il dominio di classe diviene allora un fatto strutturale e normalmente non ha bisogno di supporti esterni quali la forza militare o di ideologie non direttamente economiche quali la religione.
Infatti, nel modo di produzione capitalista, la circostanza che il capitalista intervenga direttamente o indirettamente nel processo di produzione, e il carattere stesso del processo, cioè la sua complessità e il suo gigantismo crescenti, tutto ciò fa sì che il rapporto di proprietà abbia la sua radice in una ragione tecnica. In effetti il fondamento della proprietà capitalista sta nel fatto che la cooperazione manifatturiera, la forma assunta dalla divisione del lavoro nel capitale, cioè la divisione del lavoro parcellare, necessita di una organizzazione e di una direzione centralizzate, compito che sotto il capitalismo solo il capitale e non la forza lavoro è in grado di assumere. Quindi il capitale non domina il processo produttivo perché è proprietario ma è proprietario perché domina il processo di produzione, soprattutto in quanto quindi lo progetta e lo organizza, cioè ne controlla e gestisce la tecnologia, anche se non necessariamente in prima persona, ma tramite suoi rappresentanti.
Ma presto si sviluppa un processo in controtendenza, cioè la complessità del processo di produzione stesso sfugge al controllo della direzione capitalista per cui per il capitale è necessario che la gestione sia al contempo centralizzata e decentrata. Infatti il centralismo è necessario per il controllo politico del processo produttivo, il decentramento per la divisione del lavoro. Pertanto il dispotismo capitalista, che realizza una gestione verticistica, deve cedere di fronte alla necessità di un rapporto che lasci l’iniziativa nella gestione dell’organizzazione del lavoro ai subordinati. Ciò implica un rapporto di produzione non coercitivo, o che almeno non venga percepito come tale. Poiché il dominio del capitale non può esistere se non come struttura gerarchizzata e verticistica, tale circostanza allude all’obsolescenza dal capitale come modo di produzione e annuncia il passaggio al comunismo.
In questo rapporto di dominio indiretto tra capitale e lavoro svolge un ruolo fondamentale l’egemonia intellettuale che sempre accompagna quella economica, per cui il pensiero dominante è sempre quello della classe dominante. Ma tale pensiero deforma la realtà, ha cioè carattere ideologico. D’altra parte nelle società precapitaliste tale pensiero aveva contenuto economico solo indirettamente, mentre in quella capitalista il suo nucleo essenziale è proprio il pensiero economico. Suoi pilastri portanti sono fondamentalmente lo scambio, l’idea di proprietà che lo permea e le varie teorie del valore che su tale idea sono state costruite. In esse il valore dei beni viene determinato in base a rapporti che in realtà sono secondari: domanda e offerta, concorrenza, utilità. Oppure in base a rapporti oggettivati quali il lavoro salariato. Ciò determina nella percezione degli individui un completo rovesciamento delle propria coscienza dei rapporti sociali ed economici in particolare. I rapporti economici vengono percepiti come fatti oggettivi, si ha cioè una reificazione del rapporto sociale e quindi il fatto che i prodotti del lavoro e il lavoro stesso si presentino come merci di valore determinato viene considerato alla stregua di un fenomeno naturale ineluttabile. Mentre, al contrario, il fatto che i rapporti di scambio siano rapporti di classe tende ad essere eclissato dall’ideologia dominante.
Soprattutto non viene percepito il fatto che i rapporti di scambio e di proprietà sono già determinati al livello della produzione, in dipendenza dello sviluppo delle forze produttive. Per cui agli individui sfugge il carattere oggettivamente coercitivo di questi rapporti. Ma non solo. Viene ignorato il rovescio dialettico di tali rapporti, cioè il fatto che l’esistenza di rapporti di scambio implica quella di rapporti di cooperazione nella produzione, cioè una divisione del lavoro, relazione che esiste oggettivamente in ogni società mercantile e cui tutti sono obbligati a sottostare, pur non essendone pienamente coscienti. Cioè la concorrenza universale, cioè il ‘bellum omnium contra omnes’ hobbesiano, determina una cooperazione involontaria. Quindi viene pure cancellata dalla coscienza la contraddizione inerente a tale rovesciamento, cioè che una forma superiore di forza produttiva del lavoro sociale venga posta e sviluppata in condizioni che costituiscono un ostacolo al suo sviluppo. Cioè la cooperazione viene posta sulla base della concorrenza. Così pure viene ignorato dal capitale il ruolo attivo del produttore nel senso del non adeguamento al comando capitalista, sia nel senso di una opposizione ad esso, sia come partecipazione positiva al processo produttivo in quanto realizzazione personale. Queste tendenze, che sono il frutto più maturo del capitalismo in quanto ne annunciano il superamento e l’approdo ad una società superiore, questi segnali premonitori vengono ignorati o passano inosservati perché incompatibili con la nozione di valore.

FORZE PRODUTTIVE, RAPPORTO DI PRODUZIONE E IDEOLOGIA

I rapporti di produzione in generale e quelli di proprietà in particolare rispecchiano il ruolo delle varie classi nel processo produttivo e quindi sono determinati dallo sviluppo delle forze produttive. Ma qual è il contenuto di tali categorie e il loro rapporto con l’ideologia ? Quando si parla di forze produttive e si vuole comprenderne la natura occorre innanzitutto tener presente che la loro denominazione completa è ‘forze produttive del lavoro sociale. In quanto il lavoro è per definizione una attività sociale. Quindi la sola altra categoria che si contrappone ad essa sono le forze produttive naturali. Infatti si ammette che le uniche forze produttive di beni sono il lavoro e le forze naturali, distinzione del resto solo concettuale perché, se consideriamo l’organismo umano un prodotto della natura, il lavoro è sempre trasformazione della natura mediante la natura stessa. In tale concezione unitaria appare chiaro che tra le forze produttive assume un ruolo essenziale la divisione del lavoro. Infatti appena ci si allontana dallo stato naturale cessa l’autosufficienza dei gruppi sociali naturali (famiglia, clan, tribù), quindi il rapporto con la natura diviene collettivo e artificiale. Ciò implica la divisione del lavoro, ma questa esiste solo nella misura in cui vi sono relazioni di scambio tra gli individui, fosse anche solo lo “scambio silenzioso”, che si svolge tra comunità primitive isolate. Quindi la grande forza produttiva è la divisione del lavoro in quanto lavoro sociale. Ad un primo sguardo sembra che le forze produttive siano non solo il lavoro sociale ma anche i mezzi di produzione. Ma a partire dalla comunità primitiva fondata sulla produttività naturale della terra fino ad arrivare alla grande industria capitalistica il lavoro sociale è la vera grande forza produttiva, e la sola non naturale, in quanto produce i suoi presupposti, cioè i mezzi di produzione, le condizioni del lavoro sociale create dal lavoro sociale stesso. Quindi è riproducibile illimitatamente, a differenza dei fattori naturali che sono migliorabili ma non moltiplicabili.
Se si identifica le forze produttive con il lavoro sociale la distinzione tra forza produttiva e rapporto sociale di produzione diviene fluida. Infatti il rapporto di produzione può presentarsi in forme diverse: tecnico, giuridico, politico, economico, militare, culturale. Si tratta sempre di rapporti di produzione lato sensu, perché tutti hanno, direttamente o indirettamente il fine primario di realizzare la produzione, sia permettendo al rapporto tecnico di esplicarsi, sia incentivando lo sviluppo e l’oggettivazione delle forze produttive. Il primo rapporto ha carattere funzionale e si esplica nella divisione del lavoro come dipendenza delle attività produttive parziali le une dalle altre, in vista della realizzazione del prodotto finale. Quindi costituisce propriamente il vero rapporto di produzione. Gli altri lo sono solo indirettamente in quanto sono rapporti gerarchici, cioè rapporti di potere in cui la dipendenza degli individui è determinata da un grado di coercizione non riconducibile direttamente ad una attività produttiva. Il rapporto giuridico mette in relazione gli individui in ragione della proprietà; quello politico si stabilisce tra classi sociali in base ad un patto sociale; quello economico regola le transazioni fra gli individui in quanto soggetti contrattuali; quello militare definisce i rapporti tra individui che dispongono di forza fisica; quello culturale concerne lo scambio di prodotti intellettuali. Quindi, rispetto al rapporto tecnico gli altri rapporti sono ad esso subordinati, cioè senza movimento autonomo, senza storia propria. Qui è il luogo di nascita dell’ideologia. All’interno di questi rapporti senza autonomia gli individui sono spinti ad attribuirgliene una, cioè sono soggetti alla tendenza di invertire l’ordine causale rispetto al rapporto primario, quello materiale o tecnico. Per cui sembra che i rapporti di produzione siano determinati dalla forza militare, dalla posizione sociale nella stratificazione delle classi, dalle norme giuridiche, dalla proprietà, dalla potenza delle idee stesse. I rapporti secondari costituiscono la sovrastruttura propriamente detta, mentre il complesso delle forze produttive, che include i rapporti tecnici, costituisce l’infrastruttura.
Dopo aver considerato la forma del rapporto di produzione è ora possibile definire il lavoro sociale come forza produttiva sociale. Esso è costituito dalla somma di tutte le abilità e conoscenze tecniche possedute dai produttori sia singolarmente che collettivamente come patrimonio comune. Mentre gli strumenti di lavoro costituiscono l’oggettivazione delle forze produttive sociali, cioè di quel lavoro sociale la cui produzione è differita nel tempo. Quindi, quando si parla di oggettività delle forze produttive si parla di facoltà umane che sono un prodotto storico e sociale, quindi di qualcosa che si evolve nel tempo. Si tratta perciò di una oggettività relativa ad una determinata epoca storica, cioè del contesto storico determinato che in ogni epoca è dato quale condizione di qualsiasi trasformazione.
Il nesso tra forze produttive e rapporto di produzione è al contempo un rapporto di inclusione e di differenziazione. Infatti il carattere sociale delle forze produttive implica che il rapporto tecnico sia al contempo rapporto di produzione e forza produttiva. Quindi il rapporto primario, in quanto oggettivo, è parte delle forze produttive sociali e proprio in quanto tale è il vero rapporto di produzione. Tuttavia i rapporti secondari non sono in nessun modo sottoprodotti inutili e parassitari della struttura, bensì hanno la funzione di realizzare socialmente il rapporto primario, cioè di renderlo compatibile con le gerarchie sociali. Ma per svolgere tale funzione devono assumere carattere ideologico, in quanto essa si realizza mediante l’occultamento della realtà. Cioè le ideologie hanno la funzione di occultare la natura sociale del rapporto primario, quello tecnico, il più vicino alle forze produttive, che pertanto può identificarsi con esse. La funzione della sovrastruttura, le famose professioni “improduttive” scoperte da A. Smith, “… dalla prostituta al monarca …”, sulle quali esercita spietatamente la sua ironia, nel suo complesso è quella di tradurre in norme giuridiche e morali, cioè in generale in regole sociali, i rapporti di produzione oggettivi e necessari derivanti dalle forze produttive esistenti. Tali norme sono il punto di mediazione tra le necessità oggettive della produzione, quindi delle forze produttive, e i condizionamenti sociali, cioè dell’esigenza di salvaguardare i ruoli sociali delle classi al di fuori della produzione, ma soprattutto la loro posizione nella scala dei redditi. Imperativo questo che si scontra con le esigenze della produzione e trova il suo punto di equilibrio variabile, secondo lo sviluppo delle forze produttive. Oppure può non trovarlo affatto, nel qual caso si apre un’epoca di instabilità sociale che segna il tramonto di una formazione sociale e l’avvento di un’altra nella quale è possibile trovare un punto di equilibrio tra oggettività produttiva e rapporti tra classi. Quindi, in ultima analisi, la sfera dei rapporti di produzione infrastrutturali si pone nel lungo periodo come necessaria, e il piano dei rapporti sovrastrutturali, avente in generale carattere ideologico, come transitorio. Questo non significa che la struttura sia immune dalla lotta di classe. E’ noto che lo sviluppo della tecnologia è condizionato dai rapporti di forza tra le classi. Infatti nel capitale il processo lavorativo è condizionato dal processo di valorizzazione, per cui se il primo viene ostacolato l’insufficiente valorizzazione impone un ristrutturazione del primo.
Così in particolare si spiega il caratteristico dualismo dei rapporti di produzione capitalistici, e in particolare nei rapporti economici. Da una parte il rapporto economico di scambio, una transazione che ha luogo tra liberi proprietari di merci, che pone l’uno come lavoro salariato libero, l’altro come capitale da valorizzare. Dall’altra rapporto tecnico di cooperazione coercitiva, cioè realizzata mediante un rapporto politico di subordinazione, mediata da una disuguaglianza economica fondata sull’asimmetria della proprietà, e sullo sfondo la minaccia teorica ma talora ben concreta, del ricorso alla forza militare. Qui agisce la legge del valore in funzione ideologica. Qui il rapporto di lavoro salariato, con il suo carattere di rapporto economico e giuridico, che pone il lavoratore sullo stesso piano del capitalista in quanto libero ed uguale proprietario ed anche come lavoratore individuale, tale rapporto dissimula la realtà che è quella di un rapporto di cooperazione coercitiva, negazione dello scambio individuale e libero, ponendo così un rapporto di dominio che cancella lo scambio come rapporto libero.
Quindi rapporto di proprietà e rapporto di scambio sono strettamente connessi. Sono entrambi rapporti fondamentali in quanto regolano il rapporto fondamentale del capitalismo, lo scambio di lavoro vivo con lavoro morto, cioè la compravendita della forza lavoro. Ma entrambi sono casi particolari di un fenomeno più generale, la reificazione.


LA REIFICAZIONE

“L’essenza della struttura di merce (…) consiste nel fatto che un rapporto (…) tra persone riceve il carattere della cosalità (…) che occulta nella sua legalità autonoma (…) ogni traccia della sua essenza fondamentale: il rapporto tra uomini.” (G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Sugar, s.d., p.108)

Si ha reificazione quando nella pratica sociale le cose sono considerate non prodotto del lavoro sociale, ma alla stregua di semplici oggetti naturali, cioè come se fossero determinati solo da cause naturali. Poiché il lavoro, sia quello comunitario che quello privato ha sempre carattere sociale, la reificazione dei prodotti del lavoro porta con sé anche quella del loro presupposto, cioè del lavoro sociale, e in particolare nel suo aspetto di rapporto di produzione, quindi in generale quella di tutti i rapporti sociali da esso determinati e in definitiva quella degli individui stessi, che ne sono gli attori. Questo potrebbe sembrare anche il contenuto del materialismo storico, che pare attribuire alle cose il potere di creare i rapporti sociali, essendone queste il presupposto. Ma si tratta di una errata interpretazione del materialismo, a precisamente di una interpretazione reificata. Infatti in essa si fraintende il carattere delle forze produttive, identificandole con i mezzi di produzione, mentre in realtà si tratta di lavoro sociale in quanto i mezzi di produzione (macchinario, edifici, scorte, etc.) non sono e non vanno considerati come semplici oggetti materiali, ma come prodotti del lavoro sociale. Il risultato della concezione reificata del materialismo storico è una visione deterministica della storia, simile alla visione statica che ne dà la borghesia. Mentre prendere posizione a favore del punto di vista sociale significa accettare il principio secondo il quale il lavoro sociale determina specifici rapporti di produzione come rapporti tra individui, quindi modificabili dagli stessi. Ma la visione reificata ha un suo carattere oggettivo, cioè trova in una certa misura una corrispondenza nella realtà, quindi è parte del materialismo altrimenti il materialismo stesso avrebbe carattere idealistico, attribuendo ad una semplice illusione un carattere autonomo. In effetti, da questo punto di vista, la reificazione può essere considerata determinata in parte dall’eredità naturale non ancora superata. Quanto agli oggetti naturali effettivi, essi sono reificati quando vengono colti nella loro immediatezza e considerati immodificabili, come nell’ideologia ambientalista. Ciò vale anche per i concetti quando vengono ipostatizzati ed anche per le percezioni, in quanto, come il linguaggio, sono prodotto sociale e quindi storico. (v. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi, 1972)
Tuttavia gli oggetti naturali nella loro soverchiante potenza originaria condizionano realmente la società, soprattutto alle sue origini, producendo una alienazione primitiva o naturale, e costituendo la sfera della necessità, così come si presenta immediatamente. Da essa però, tramite la creazione di una forma di socialità superiore a quella naturale, prende origine il lavoro sociale, quale strumento per superare questa condizione. Ma tale nascita è l’avvio di un processo che si identifica con l’inizio della storia, processo le cui contraddizioni determinano la reificazione del lavoro sociale, cioè la sua trasformazione in lavoro individuale quantificato, che culmina nello sviluppo del lavoro salariato. Trasformazione che segna il passaggio all’alienazione secondaria o sociale. Al contempo la comunità primitiva subisce un processo di frammentazione, sorgono le classi e prende forma l’interesse privato. Di conseguenza nasce l’ideologia, cioè la giustificazione dell’interesse di classe, cioè dell’interesse particolare, che l’ideologia ha il compito di presentare come universale o trascendente.
In generale l’ideologia, cioè il pensiero della classe dominante, prende la forma di pensiero idealistico. Tale carattere è determinato dal fatto che nella divisione del lavoro l’attività della classe dominante assume, direttamente o indirettamente, il carattere di lavoro intellettuale. Cioè la classe dominante assume compiti direttivi in quanto si fa carico dell’organizzazione delle istituzioni, quelle preposte al culto, all’economia, alla guerra, all’amministrazione dello stato, alla politica, alla cultura. Alle classi subalterne è demandato il lavoro materiale ed esecutivo. Di conseguenza le classi dominanti sono spinte a considerare le idee come causa del movimento storico, mentre il pensiero delle classi subordinate sarà materialista e critico del precedente.
Ma con lo sviluppo storico tali correnti di pensiero fondamentali tendono a produrre una sintesi, come espressione a livello intellettuale del movimento storico che tende al superamento della società di classe. Infatti con la nascita della società borghese e il conseguente sviluppo del lavoro sociale, viene riconosciuto nei beni il loro carattere di prodotti del lavoro sociale, idea condivisa anche dalla borghesia almeno fintanto che si pone come classe progressiva. Quindi, poiché viene altresì riconosciuto che i prodotti del lavoro sono la base materiale della società, diviene evidente che il lavoro e la sua organizzazione sociale determinano il divenire storico. Ed è su questa base, a partire dallo sviluppo della tecnologia, che si manifesta quello che è il vero pensiero borghese, cioè il pensiero scientifico, tentativo di sintesi di idealismo e materialismo, solo in parte riuscito, che sfocia nel materialismo positivista.
In realtà la scienza moderna è essenzialmente frutto di una interpretazione del platonismo rinascimentale in chiave matematica e dello sperimentalismo aristotelico in senso materiale e quantitativo, quindi della validità dei metodi matematici e quantitativi nella conoscenza della natura. In effetti il metodo scientifico è costituito da un tentativo di sintesi tra empirismo, da cui il principio sperimentale come fondamento assoluto della scienza, e razionalismo, da cui l’uso della matematica come linguaggio descrittivo e strumento di indagine. Quindi la scienza moderna si configura come momento di sintesi delle due correnti di pensiero fondamentali. Ciò accade in quanto essendo il capitalismo la società di classe più sviluppata della storia, è anche l’ultima, cui succede una società che ha superato le dicotomie e le separazioni che sono all’origine delle sue fratture interne, anche nel campo intellettuale. Quindi nel suo ambito incomincia a verificarsi quella unificazione nel pensiero che è la conseguenza necessaria del superamento delle classi. Quindi il pensiero scientifico, pur essendo il pensiero della classe dominante, non costituisce una ideologia in senso assoluto, in quanto il procedimento appare legittimo quando l’indagine verte su oggetti immediati, o naturali, e quindi viene posto come metodo proprio delle scienze naturali. Ma quando tale metodo viene applicato alle scienze umane, e in particolare a quelle sociali, non può produrre che una reificazione dei rapporti sociali. Ciò significa porre le categorie sociali come oggetti ipostatizzati, quindi considerarle alla stregua di prodotti della natura, rinunciando con ciò a trattare le cose e i rapporti sociali come costruzioni umane e come tali modificabili storicamente dai loro creatori. Tutto ciò costituisce infine una reificazione degli individui, cui corrisponde all’inverso un personificazione delle cose in quanto gli si attribuisce il potere di determinare irrevocabilmente la sfera sociale. In sintesi, tale pensiero genera una coscienza ideologica nella quale si verifica una inversione tra soggetto e oggetto.
Il proletariato combatte teoricamente e praticamente questa ideologia in tutte le sue espressioni, partendo dall’idea pratica che i beni che essi producono, quindi la vita e la società, non sono entità autonome ma un prodotto sociale di rapporti sociali, e in particolare dei rapporti di produzione, cioè del lavoro sociale. Pertanto, se per oggetto si intende non solo i prodotti materiali ma qualsiasi prodotto sociale, i rapporti sociali non sono oggetti, ma al contrario gli oggetti sono prodotti sociali: questa in estrema sintesi il contenuto del pensiero rivoluzionario.
Ma il pensiero rivoluzionario è anch’esso suscettibile a trasformarsi in ideologia. Infatti il riconoscimento del lavoro sociale quale fondamento delle categorie economiche e in generale delle categorie sociali, può avere due esiti opposti, secondo che il lavoro sociale venga reificato o considerato come base di un processo di socializzazione. Il primo punto di vista è quello borghese, in cui il lavoro viene considerato fondamentalmente come attività individuale, condizione necessaria alla sua quantificazione, quindi alla sua trasformazione in lavoro salariato. Tale punto di vista, cioè la teoria del valore dei classici, visione frutto del pensiero scientifico borghese, quindi solo parzialmente ideologico, ha corso limitatamente agli esordi del modo di produzione capitalistico quando la borghesia è ancora rivoluzionaria. Tale teoria, parzialmente materialista, viene poi abbandonata dalla borghesia quando, assurta al potere, diviene conservatrice. La nuova teoria marginalista, totalmente quantitativa, completa la reificazione del pensiero economico borghese. Ma la legge del valore in quanto teoria quantitativa è solo in parte reificata e per questo fatta propria in parte dal proletariato. Marx stesso la condivide e ne sviluppa il contenuto considerando però il lavoro soprattutto come rapporto sociale, quindi anche il valore, considerando che il lavoro quantitativo, la negazione del lavoro sociale, è la base dello scambio, quindi della proprietà privata. Ma con ciò rimane coinvolto in non poche contraddizioni in quanto non abbandona il punto di vista quantitativo.
Il secondo punto di vista è quello del proletariato, quello che si sviluppa con il progredire del lavoro sociale ad opera del capitale, come cooperazione manifatturiera. Ma il lavoro sociale nel capitale si sviluppa anche come antagonismo nel luogo della produzione. In realtà riconoscere nel lavoro sociale il fondamento dell’economia, significa, dato il carattere conflittuale del lavoro sociale alienato, cioè reificato, questa base nel conflitto sociale. In particolare significa riconoscere nel conflitto la base del valore.
Ma il lavoro sociale è il punto di snodo di molte altre contraddizioni. Infatti la dicotomia del rapporto di produzione capitalistico in un rapporto di scambio che si svolge nella circolazione e in un rapporto di produzione materiale, in senso stretto, ha nel lavoro l’elemento comune ma non unificante. Infatti nello scambio il lavoro sociale compare come elemento quantitativo ed individuale, quindi in forma reificata. Mentre nella sfera produttiva si presenta immediatamente come lavoro sociale, quindi in forma qualitativa. Questa qualità sociale, sebbene questa qualità sia negata dal capitale, mentre viene costantemente riaffermata dalla forza lavoro sia all’interno del sistema come rivendicazioni salariali e normative, sia come pratica all’esterno, pratica sottratta ad esso e sovente rivolta contro di esso. Cioè la socialità del lavoro si manifesta nel proletariato fuori e contro il capitale come uso alternativo delle macchine al fine di “rubare” tempo di lavoro e al limite sabotare la produzione.
Quanto alla scienza economica capitalista più recente, quella marginalista, essa si è sviluppata accentuando la sua reificazione, cioè il carattere quantitativo, fino ad attribuire allo scambio il magico potere di determinare nel sistema economico borghese uno stato di equilibrio. Ne dimostra l’esistenza scientificamente, cioè matematicamente, ma sotto la condizione che i soggetti economici seguano le regole dello scambio, che si riducono infine ad una sola, il riconoscimento reciproco dei soggetti come proprietari. Mentre in realtà ciò che determina i rapporti sociali e quelli economici in particolare nella società di classe, è il contrasto di interessi. Lo stato di equilibrio è quello fra gli interessi di classi contrapposte, quindi è un risultato della dinamica della lotta di classe, in cui entrano fattori diversi, economici ed extraeconomici, quali la forza e l’ideologia, che possono svolgere un ruolo più o meno importante secondo i luoghi e i tempi, ma infine determinanti sono gli interessi di classe in quanto espressione di rapporti sociali. In ultima analisi sono questi i fattori decisivi, i rapporti concreti fra gli individui in una struttura sociale determinata. Quindi attribuire alle cose la proprietà di determinare i rapporti sociali, questa è ideologia, cioè reificazione. Così è anche per la teoria del valore, che determina come fatto oggettivo il valore delle merci, poiché tale valore è in realtà un rapporto sociale. D’altra parte condizione fondamentale per il superamento del capitalismo e l’instaurazione del comunismo è proprio l’abolizione della legge del valore.

Torino, ottobre 2011 Valerio Bertello

PS. In particolare il fatto di considerare la proprietà un fatto naturale nasconde l’intenzione di far passare inosservato il fatto che la reificazione dei rapporti sociali e in particolare dei rapporti di produzione cela la loro vera natura quella di rapporti di dominio.